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SOLONE DEL LIBRO/2. La parola meticcia

Alessandro Zaccuri sabato 12 maggio 2012
​Bene la Spagna e benissimo la Romania. Anche quest’anno, però, il Salone del Libro ci tiene a far capire che l’aggettivo "internazionale" non sta nell’insegna per semplice opportunità decorativa. Basta scorrere il programma per accorgersi che il Lingotto pullula di scrittori provenienti da ogni parte del pianeta. Merito, in particolare, del progetto "Lingua Madre". Il crinale è quello, sottilissimo, fra identità locale e dialogo globale, con un occhio di riguardo alla "Primavera digitale" che detta la linea all’edizione 2012. Da questo punto di vista, l’autore-simbolo potrebbe essere l’israeliano Ron Leshem, che in Underground Bazar (Cargo) ha dimostrato come il rapporto fra scrittura romanzesca e nuove tecnologie sia ormai un dato di fatto. Ambientato in una Teheran minuziosamente ricostruita attraverso i contatti Facebook stabiliti senza che Leshem si muovesse da Tel Aviv, il libro non nasconde le sue ambizioni universali: «È una storia d’amore e di amicizia sullo sfondo di un Paese in cui la libertà è limitata da una serie infinita di divieti», spiega lo scrittore. E l’utilizzo del Web? «Raccontare è il mestiere più antico del mondo - risponde - e non sarà Internet a decretarne la fine. Al contrario, penso possa accadere qualcosa di simile a quello che è avvenuto con la televisione. La quale, anziché uccidere l’arte di raccontare, ci sta dando capolavori di raffinatezza come la serie Mad Men. Il problema, semmai, è rappresentato dalle generazioni più giovani, che si trovano a crescere in un contesto di distrazione continua. Ma anche questa, per noi narratori, è una sfida interessante».Stabilire un legame non convenzionale con la tradizione è il compito che il guatemalteco Eduardo Halfon riesce ad assolvere nell’anomalo e affascinante L’angelo letterario (Cavallo di Ferro), un mosaico dei "momenti fatali" in cui i grandi del passato hanno scoperto la loro vocazione di scrittori. Halfon ha una biografia singolare: oltre a essersi formato come ingegnere, è anche una sorta di immigrato di ritorno. «La mia famiglia si trasferì negli Usa quando avevo dieci anni - dice - e a un certo punto avevo quasi del tutto perduto la capacità di esprimermi in castigliano. Così mi sono messo a studiare, mi sono riappropriato di questa che, a dispetto della definizione corrente di "madrelingua", è per me una lingua-padre, nella quale risiede il legame con le mie origini». Com’è andata a finire? «Che penso in inglese e scrivo in spagnolo - sintetizza Halfon - e che considero la letteratura come la mia vera patria o, meglio, come una fratellanza in cui ogni compagno di viaggio può rivelarsi un maestro».Più disincantato, almeno in apparenza, lo sguardo della croata Dubravka Ugresic, che al Salone presenta il movimentato Baba Jaga ha fatto l’uovo (nottetempo). «L’identità non è mai stata un mio problema - esordisce -, purtroppo però è diventata un problema per gli altri». Il riferimento è alle guerre nella ex Jugoslavia, in conseguenza delle quali la scrittrice si è trasformata in cosmopolita suo malgrado, stabilendosi in Germania, negli Stati Uniti e infine nei Paesi Bassi. «Mi sono resa conto di come perfino la lingua possa essere manipolata, falsificata, adoperata per dividere. Dispiace ammetterlo ma, quando si ha bisogno di scovare una qualche giustificazione al proprio nazionalismo, la lingua diventa uno strumento a buon mercato, e terribilmente efficace. Attenzione, non è che in Occidente la situazione sia più rassicurante. Se il giudizio di valore coincide con l’esito commerciale di un libro, ogni istanza di complessità è destinata a soccombere. Ed è esattamente quello che sta succedendo. Anche perché, me lo lasci, troppe volte la letteratura è difesa in modo serioso, con atteggiamenti nostalgici che non hanno più nulla di convincente».Un convinto oppositore di ogni retorica del passato è il cileno Alberto Fuguet, che qualche anno fa mise a soqquadro i canoni del romanzo latinoamericano promuovendo il concetto di McOndo: il modello García Márquez ha fatto il suo tempo, anche a Santiago e a Bogotá si ragiona in termini di frammentazione postmoderna. La conferma viene ora da Missing (La Nuova Frontiera), concepito come reportage narrativo e cresciuto fino a includere in sé i generi più diversi. «La lingua coincide con l’identità di ciascuno di noi, anche nel caso in cui una persona parli più di una lingua  - sottolinea Fuguet -. È per questo che non amo le rappresentazioni oleografiche, di retroguardia, che magari si camuffano da trovata turistica e invece hanno una ricaduta politica. Pensi a tutti quei libri sudamericani in cui i personaggi se la spassano, e pazienza se c’è la dittatura...». Quanto alla mescolanza di linguaggi che contraddistingue il suo stile, Fuguet assicura di non seguire un criterio intellettualistico: «Il punto - afferma - è che il grande romanzo dell’Ottocento è già stato scritto e quindi non c’è più alcuna necessità di cimentarsi in un’altra Anna Karenina. Trovo più urgente il tentativo di costruire un lettore che sappia apprezzare una forma innovativa di racconto. Altrimenti ci si deve arrendere al paradosso per cui i più giovani sono anche i più tradizionalisti quanto a gusti romanzeschi. Ha presente Twilight, no?».