Agorà

Fotografia. La Parigi fantasma di Atget e Mac Orlan

Pierre Mac Orlan venerdì 1 maggio 2020

Eugène Atget, "Place de la Bastille" (1910)

Anticipiamo alcuni brani dei saggi che Pierre Mac Orlan dedicò a uno dei patriarchi della fotografia francese, Eugène Atget, grande "reporter" della vecchia Parigi. Il testo fa parte della raccolta Scritti sulla fotografia per la prima volta tradotti in italiano ed editi da Medusa (pagine 128, euro 15) e in libreria in questi giorni.

Il passato sentimentale di Parigi si associa molto bene alla sottigliezza letteraria che può possedere un vecchio semplice, un vecchio venditore ambulante, come divenne Atget. Parigi non è una città che si offre immediatamente al primo desiderio di un fotografo-poeta. Occorre tempo perché le case adottino un passante che non è del quartiere. Essere del quartiere non significa neppure che l’arrondissement vicino ci accolga in libertà. Le strade di Parigi sono accoglienti, alla moda francese, che è leggera e molto superficiale. Bisogna essere particolarmente simpatici per ottenere in pochi giorni quel diritto di cittadinanza che permette di contemplare una copia fotografica della Place du Tertre con un sorriso spontaneo di complicità amichevole e colta.

Una visione fotografica di Parigi si complica più facilmente quando la città si fregia di un internazionalismo molto pittoresco. Ma questo crocevia d’Europa nasconde istintivamente i suoi volti familiari. Atget che conosceva benissimo le strade di Parigi fu certo uno dei poeti più puri di questo formicaio di versi liberi.

Gli elementi fotografici di Parigi, quelli che conferiscono forza a questa raccolta d’immagini ad opera di Berenice Abbott, sono quelli che i nostri padri consideravano “di commercio al minuto”. Il piccolo negoziante di Parigi, l’operaio dell’amministrazione comunale occupano un posto importante. È lì che s’incontra l’élite popolare, quella che rappresenta la storia della strada, le sue angosce e i suoi trionfi. Sarebbe necessario che un personaggio come Atget, un uomo coscienzioso e scevro da ogni vanità, venisse al mondo in ciascuna delle grandi città del mondo per lasciarcene un’immagine esatta, perché sono umanamente vere solo le visioni ispirate dalla sentimentalità collettiva.

Atget non cercava le complicazioni della notte e dell’alba piene di imprevisti affascinanti, non sprecava mai i suoi scatti fotografici allo scopo di oltrepassare per caso il territorio di cui era il padrone. La sua opera è onesta, prima di tutto. Rappresenta il reportage di qualità eccezionale e spesso uno stupore puramente plastico. Nessuno più di lui conosceva Parigi, dal Fort-Monjol, ormai scomparso, fino alle belle aiuole dei giardinetti pubblici. In ogni cosa sapeva cogliere la sfumatura che le dava valore.

Atget morì in tarda età e forse intimamente scoraggiato. Ma io non lo penso. Ho incontrato Atget, una volta, per caso. In quel periodo vendeva dei ritratti di ragazze e di negozi che potevano servire all’ispirazione dei pittori. Quest’uomo di teatro ormai anziano era impenetrabile. Prima di tutto perché nessuno cercava di capirlo e di comprendere il profondo valore della sua opera. Atget era un uomo di strada, un artigiano Poeta dei crocicchi di Parigi. Non annunciava il suo mestiere con frasi di rito, come facevano tutti gli altri, ma la sua figura era inconfondibile, un po’ curva, con il suo apparecchio fotografico e il treppiede, tra la fruttivendola, l’impagliatore di sedie e il capraio con il flauto di Pan.

Le modelle lo accoglievano con simpatia. Lavorava e amava i risultati del suo lavoro con una tenerezza comparabile a quella di Rousseau il Doganiere, ma bisogna tener conto che Atget era un uomo colto, ossia perfettamente consapevole delle risorse degli strumenti e della tecnica di cui si serviva.

Il vecchio poeta di strada, mancato di recente, doveva a Berenice Abbott di non sprofondare nella dispersione delle sue opere tra le tante fotografie anonime. La giovane artista americana è riuscita a mettere insieme la parte migliore della personalità di Atget... La forza di una immagine fotografica sta nel fatto che la si può guardare più a lungo di quanto sia necessario per ammirare un quadro o un disegno. Per molti di noi la Parigi di Atget non è più che un ricordo di una delicatezza misteriosa. Vale tutti i libri scritti su questo argomento. Senza dubbio permetterà di scriverne altri.

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Lo chiamavano il “bonhomme Atget”, il “père Atget”, perché aveva l’aspetto di un vecchio artigiano un po’ curvo. Da vivo, passò inosservato. Appoggiava il suo apparecchio un po’ dappertutto, davanti a un muro, un negozio, un’insegna all’angolo di una strada. Gli piacevano alcune pareti, come anche adesso a Utrillo, questo per il colore, l’altro per scoprire nella luce del suo obiettivo la rivelazione delle fonti poetiche delle vecchie strade già adocchiate dai demolitori. Poche persone lo conoscevano. Non apparteneva né all’arte né alla letteratura. Era solo un artigiano coscienzioso che conosceva bene il suo mestiere. Si consultavano le sue carte per scoprire delle immagini scomparse. L’ho visto un paio di volte: place du Tertre e rue Norvins, il treppiede sulla spalla e la camera fotografica nera in palissandro avvolta in un tessuto verdastro. Amava il suo mestiere con convinzione. Poteva viverne senza desiderare di più.

Oggi la sua figura è inseparabile dalla Parigi tra il 1900 e il 1914, una Parigi ricca di avventure locali. A quel tempo, un viaggio notturno tra la Chapelle e Montmartre poteva creare più avventure di un viaggio nel 1939 tra Colomb-Béchar e Gao. Per forza di cose l’opera fotografica di Atget riflette quel mistero come un cappello a cilindro in un ritratto di Nadar evoca tutto ciò che un’immagine sensibile può desiderare di preciso sulla vita di Parigi tra il 1854 e il 1900.

Atget e Nadar aprirono uno stesso diaframma su immagini del loro tempo che dovevano dare vita a quella malinconia letteraria provocata dalla contemplazione di fotografie antiche.mL’opera di Atget, per la scelta dei soggetti è più fe onda e più ricca in estensione poetica. Il vecchio testimone delle strade di Parigi sapeva scegliere le sue testimonianze nell’elemento popolare di questa Parigi il cui segreto presto ci apparirà come quello in cui viveva François Villon. Un reportage fotografico della rue de la Juiverie, nell’ora in cui le giovani prostitute sollevano la gonna per sedersi accanto agli studenti di Navarre varrebbe, senza dubbio, molto più di cento scatti sulle cerimonie del campo del Drappo d’Oro, per esempio. Gli spettacoli semplici sono più difficili da riprodurre nell’immaginazione rispetto ad altri forniti ufficialmente di tutte le risorse del loro tempo. Uno scorcio della rue Lepic nell’ora del traffico rappresenterà per i nostri discendenti un’umanità più poetica e saggia dell’arrivo di un sovrano alla stazione del Bois de Boulogne.

Atget, infaticabile pedone delle strade di Parigi sapeva, forse per caso, ma io credo che il suo gusto personale gli servisse da lanterna, mettere insieme una collezione d’immagini commoventi. Molti giovani artisti, dal 1918 in poi, hanno studiato le fotografie calde, viventi, ricche di particolari, scattate dall’anziano signore. Man Ray, Berenice Abbott, Germaine Krull e molti altri lo stimavano molto. Ma sono forse i reporter fotografici degli ultimi anni che, con profonda sensibilità, prolungheranno la tradizione sentimentale della collezione Atget. La storia quotidiana del nostro tempo riprodotta da loro ispirerà molti libri e molti poeti.

Quando sfoglio una raccolta di fotografie di Atget, penso a quella pubblicata da Jonquières, ho la certezza d’imparare qualcosa, senza sforzo, con naturalezza. La conoscenza fotografica dell’umanità in bianco e nero è inquietante. Si confonde con la personalità di ciascuno senza provocare le noie della cultura. È un’arte primaria curiosamente perfida come la canzone ascoltata a vent’anni e che ci perseguita per tutta la vita.

Atget, curvo sotto il peso della sua enorme camera nera, era un grande chansonnier delle strade di Parigi, amico delle ragazze di Belleville e delle casupole sui vicoli medievali. Per associazione d’idee, fa pensare a Aristide Bruant, a Gérard de Nerval, a Eugène Sue. Non chiedeva tanto. Le sue doti si diffondevano a sua insaputa. Sapeva che la magia futura e clandestina che registrava sulle lastre di buona qualità era, prima di tutto, figlia del tempo di pausa e della luce ben calibrata.