Agorà

INTERVISTA A JANNACCI. «La mia vera forza? Cantare la vita»

Andrea Pedrinelli giovedì 3 dicembre 2009
«Non lo so mica quali mie canzoni sono dei classici. Però so perché alcune lo possono diventare. Perché sono pezzi della mia vita, e la gente se ne accorge». Enzo Jannacci arriva all’intervista in ritardo, ma si fa perdonare subito. Non solo per l’acume e l’umanità con cui presentando il suo primo dvd (più cd, entrambi dal vivo) The best - Concerto, vita, miracoli parla di cinquant’anni di carriera, di suo figlio, dei giovani cui vuole insegnare cosa sia fare poesia in musica, di nuovi progetti, di una Milano specchio delle urgenze dell’attualità oggi come ieri. Si fa perdonare soprattutto perché non era in ritardo causa futili motivi. «Sa, mi ha telefonato un ragazzo con dei problemi. Io cerco da sempre di tenere un contatto diretto con le persone che mi vogliono bene e hanno magari degli handicap. Voleva sapere proprio di questo dvd, che gli regalerò. Solo che per dirmi una parola ci può mettere due minuti e non potevo mica chiudergli il telefono in faccia. Ci vuole poco, con chi ha bisogno: esserci. Come quando andai a Sanremo nell’89 cantando di droga e poi mi si rivolsero, a me medico, diversi che ascoltando quel pezzo (Se me lo dicevi prima, ndr) avevano avuto uno stimolo per provare a uscire dal tunnel. Ne ho tirati fuori settanta. Ma dovevo esserci, perché per aiutare degli uomini a superare certe crisi devi essere lì con loro. Parlare, usare la forza se serve, ascoltare. Quello fu un esempio di quanto possa avere avuto senso per me anche una roba come Sanremo».Jannacci, quest’anno compie 50 anni di carriera. Nel dvd, il primo della sua storia, e nel cd l’ha però testimoniata con un concerto di brani non scontati, pezzi sublimi ma non sempre noti. Quale il criterio?«In quello spettacolo ero a teatro. E nei teatri, in atmosfera sommessa, devi regalare le cose che la gente conosce (Faceva il palo, Andava a Rogoredo, Bartali, El purtava i scarp del tennis, ndr) ma puoi proporre anche quelle che vanno fatte sentire. Per un senso preciso di testimonianza. E dunque El me indiriss, Sei minuti all’alba, Io e te, La fotografia. El me indiriss, per dire, è la storia di una patria strana, della mia generazione del ’35 che si esprime. A teatro puoi mostrare quello che ti ha permesso di cantare il senso della tua vita. E il dvd alla fine si è limitato a testimoniarlo».Da qualche anno lei ha ripreso la sua anima milanese degli esordi. E nelle storie di povertà accolta dall’indifferenza che lei vi canta, sembra di scorgere un’attualità feroce. Milano sta rivivendo in altro modo i tempi del dopoguerra, dell’emigrazione?«Mah, non so. Vede, quando cambiano i mezzi di trasporto cambiano i rapporti tra le persone. Se stiamo tutti in macchina non ci conosciamo. La mia Milano andava in tram. Io e te canta di un "buco nero in fondo al tram", precariato, emigrazione. Che ieri come oggi sono un conto presentato alla gente comune. In tv di questi tempi politicizzati tali problemi li coprono con parole incomprensibili, i politici danno spazio ai loro schemi e mai ai fatti. Però la crisi sta riportando la gente in tram, questo è vero. Quando ci salgo vedo che i ragazzi di oggi sono quelli di ieri. Quelli di sempre. E l’urgente questione morale di oggi è: aiutiamoli. Spieghiamo le cose, ricominciamo a parlare, a conoscere gli uomini, per risolvere i problemi che si ripresentano».Quanto conta suo figlio Paolo per la sua carriera?«Ha fatto tutto lui. Quando nel 2001 ho inciso Come gli aeroplani venivo da cinque operazioni alla schiena e mille rifiuti di discografici. La casa discografica Ala Bianca non mi ha mandato via e ancora oggi mi aiuta a far vivere le mie idee da un punto di vista industriale: ma Paolo per me ha fatto tutto il resto. Suoni, foto, impaginazioni, direzione d’orchestra. E mi segue quando esco dal seminato. Quasi sempre, dunque».I "miracoli" del titolo del dvd quali sono? Il fatto che la gente abbia riscoperto in questi tempi di musica modesta i suoi capolavori potrebbe essere uno...«Credo di sì. Anche se il titolo è ironico, ovvio. Però è proprio Paolo che chiama miracolo il fatto che oggi mi diano più retta, che riesca a far breccia con l’ironia, con le mie cose fuori dal comprensorio. Oggi le mie pause le prendono come pause del pensiero. A volte sono pause della memoria...».È del 2003 il suo ultimo inedito. Sta scrivendo?«Ho molte cose nuove al vaglio, devo sentire anche Paolino per verificarle. Ma ora ha una bambina piccola, e poi studia ancora, lo sa? Si perfeziona come musicista anche se forse non ne ha bisogno. Comunque prima di incidere un disco nuovo devo confrontarmi con lui, dobbiamo essere convinti dei pezzi, smussarli, provarli. L’ipotesi è che esca entro un annetto».Intanto dal 3 febbraio lei terrà otto incontri sulla canzone come "Arte delle parole in musica" alle Scuole Civiche di Milano. Cosa insegnerà?«È il progetto più bello che ho in cantiere. Ma non insegnerò nulla: spiegherò. Come ho dovuto tirare i remi in barca quando non mi capivano e ripartire. Come sono approdato a nuovi modi di racconto senza ripetermi, cercando di rinnovarmi. Con la buona sorte di un discografico che ha creduto e crede in me».Ma ci anticipi qualcosa. Ad esempio, come ci si rapporta col pubblico di oggi?«Il pubblico non è di oggi o di ieri. Io sono molto estemporaneo, e l’esperienza conta. Però sul palco bisogna alternare divertimento e critica, capire cosa recepiscono e cosa no, e aggiustare lo spettacolo a vista per ripagare la loro fiducia».Questo suo "Best" andrà pure in tour. Così com’è?«Più o meno. Sarà una delle ultime mie tournée, non ho più voglia di girare. Andrò in posti precisi (già fissate le date di Milano, allo Smeraldo il 18 aprile, e Roma, al Sistina l’11 maggio; previste anche tappe a Vicenza, Perugia, Napoli, ndr). Cerco un pubblico preciso. Quello del teatro. Come quando a Roma venivano a vedermi Volonté, Monicelli... E mi dicevano che facevo teatro con le canzonette. Ci proverò ancora: situazioni sommesse per parlare alla gente».