Agorà

IDEE. La lezione del Muro

Luigi Geninazzi giovedì 29 agosto 2013
Anticipiamo ampi stralci della prefazione di Lech Walesa e dell’introduzione dell’autore a “L’Atlantide rossa. La fine del comunismo in Europa” (Lindau, pagine 288, euro 19,00) di Luigi Geninazzi, giornalista che da inviato di “Avvenire” ha seguito da vicino lo sgretolamento dell’impero comunista negli anni ’80. Il volume, da oggi nelle librerie, rievoca tra l’altro gli incontri di Geninazzi con papa Wojtyla durante gli anni più bui della repressione di Jaruzelski in Polonia. Geninazzi ricorda che fin dal primo incontro, nel 1981, «con mio grande stupore il Papa si mostrò interessato a conoscere le mie impressioni». Senza per questo rinunciare a giudizi, anche secchi, sulla “sua” Europa orientale: «Di tutti i comunisti – confidò Wojtyla nel 1983 – quelli cecoslovacchi sono i peggiori».
C’era una volta l’Europa dell’Est, un mondo grigio di ristrettezze e re­strizioni che sopravviveva a fatica sotto il trionfalismo ingannevole delle ditta­ture rosse. Un mondo che nell’immaginario collettivo è scomparso in una notte con il crol­lo del Muro di Berlino il 9 novembre del 1989, in modo improvviso come la mitica Atlanti­de. L’opinione più diffusa è che la Cortina di ferro si sia afflosciata di colpo come fosse di cartapesta e che la caduta dei regimi totalita­ri nell’altra metà d’Europa sia giunta in mo­do del tutto imprevisto. Il comunismo sem­bra sia morto d’infarto e tutti, a cominciare dai parenti più stretti, hanno celebrato con esi­bito sollievo e qualche malcelata preoccupa­zione i suoi funerali.
Ma, a dire il vero, il Mu­ro non è crollato. L’espressione, anche se or­mai entrata nel lessico abituale, ha una forza evocativa che non corrisponde alla realtà. Il Muro non è crollato, è stato abbattuto. Non in una notte ma nel corso di lunghi anni. Non è caduto, l’ha buttato giù gente cocciuta e co­raggiosa che ha sfidato un potere illiberale e repressivo a mani nude [...]. L’Atlantide rossa, sparita e pressoché cancel­lata dalla nostra memoria, non era una lan­da desolata. Era un mondo segnato dalla pe­nuria materiale che sotto la cappa oppressi­va del potere nascondeva tesori di umanità autentica, maestri saggi dotati di grande fa­scino intellettuale e gente semplice istintiva­mente lontana dalle doppiezze del regime, credenti la cui fede cristiana alla fine è riusci­ta davvero a spostare le montagne e laici d’as­soluta integrità morale alla ricerca del bene e del vero. Per non parlare della capacità d’iro­nia di fronte alle avversità, anche quelle più dure e ingiuste provocate dai governanti [...].
Sono stati «dieci anni che hanno sconvolto il mondo», se mi è consentito parafrasare John Reed, l’inviato più famoso del XX secolo, cro­nista eccezionale della rivoluzione bolscevi­ca del 1917. Come allora sono ricomparsi pro­letari in azione e popoli in subbuglio. Ma a differenza dell’epopea descritta dal giorna­lista americano che fu amico di Lenin e Trot­sky, questa volta la classe operaia non è an­data all’assalto del Palazzo d’Inverno con le armi in pugno. Tutto all’opposto: non ha mosso un dito per attaccare, preferendo in­crociare le braccia in attesa che il sedicen­te “governo degli o­perai e dei contadini” scendesse a negozia­re con i diretti inte­ressati e riconosces­se i loro fondamenta­li diritti. Fu la prima breccia nel Muro che iniziò a sgretolarsi sul litorale baltico già nel 1980 con la nascita di Solidarnosc, il sinda­cato libero polacco.
Nella storia irrompe quel che potremmo chiamare “il fattore W”. Come Walesa, co­me Wojtyla, l’uno il fondatore, l’altro il di­fensore di un nuovo movimento operaio che ben presto sarebbe diventato un movimento di popolo la cui vo­glia di libertà finirà per contagiare le altre na­zioni dell’Europa sovietizzata. Stando li, sul terreno, si capiva subito che era in corso una rivoluzione, diversa però da tutte quelle che avevamo conosciuto. Chi manifestava con­tro il regime non si muoveva in forza di un’i­deologia, non il liberalismo e neppure il na­zionalismo, tanto meno il socialismo sia pu­re dal volto umano. Si trattava di un movi­mento di natura etica, per dirla con Jozef Ti­schner, considerato da tutti come il teorico di Solidarnosc [...].
Quella del 1989 è una rivoluzione pa­cifica dove, è stato detto, «non si è rot­to neanche un vetro», a eccezione della sanguinosa rivolta in Romania (che fu in realtà un colpo di Stato travestito da sommossa popolare). C’e chi, come lo stori­co François Furet, vi ha visto il compimento della Rivoluzione francese di due secoli pri­ma e chi, come lo storico e militante di Soli­darnosc Bronislaw Geremek, l’ha definita «l’e­satto contrario del 1789, una rivoluzione con­tro l’idea giacobina e i suoi metodi violenti sfociati nel Terrore». Lo studioso e giornalista inglese Timothy Garton Ash, profondo cono­scitore dell’Est Europa cui ha dedicato vari saggi, ha inventato il termine “refolution”, a in­dicare una miscela di rivoluzione e riformi­smo che ha caratterizzato i movimenti dell’89. Mentre lo storico Krzysztof Pomian nega decisamente che si possa parlare di ri­voluzione perché tutto è successo nel quadro di «una transizione negoziata» [...]. Ma pro­babilmente la definizione più azzeccata è quella del dissidente divenuto presidente del­la Cecoslovacchia Václav Havel che, da laico, non ha esitato a parlare di «miracolo» [...].
Ripensare al 1989 è tutt’altro che un esercizio rievocativo nella situazione attuale dove ogni giorno, a livello planetario, siamo confronta­ti a movimenti di protesta dal basso, espres­sione di una società civile che non si ricono­sce più nei partiti e nelle istituzioni tradizio­nali. Il riferimento è venuto spontaneo da­vanti alle “Primavere arabe” del 2011, un at­to liberatorio collettivo che ha spezzato le ca­tene della «mente prigioniera» (per dirla con le parole del grande scrittore polacco e pre­mio Nobel per la lettera­tura Czeslaw Milosz) provocando la caduta dei regimi autoritari in Tunisia e in Egitto. Pur­troppo, come ho potuto constatare di persona, i giovani di piazza Tahrir non hanno saputo pren­dere esempio da quan­to successo nell’Est Eu­ropa illudendosi che la rivoluzione, generata nello spazio virtuale del web, avesse trovato i suoi leader nei blogger e potesse sopravvivere grazie ai social network. Internet è un formidabi­le strumento di comunicazione ma non è suf­ficiente per creare un soggetto politico. «Ab­biamo innaffiato il deserto ma non siamo sta­ti capaci di far crescere la pianta», è la scon­solata ammissione che ho raccolto qualche mese più tardi da coloro che avevano contri­buito alla caduta di Mubarak senza però riu­scire a ottenere un governo liberal-democra­tico.
Eppure la leggenda postmoderna se­condo cui internet e sinonimo di de­mocrazia sembra resistere, anche in ca­sa nostra. Chi oggi vive di antipolitica fareb­be bene a leggere quel che ha scritto a questo proposito Václav Havel nel suo Il potere dei senza potere, uno dei testi che ha ispirato la Rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia: «Il cambiamento delle strutture deve partire dal­l’uomo, dal suo rapporto con se stesso e con gli altri». Per l’intellettuale boemo l’unica grande risorsa contro il potere è un io che ha scelto di vivere nella verità. Non basta indi­gnarsi per quel che sta fuori, occorre guarda­re dentro di noi per scoprire «l’impensato del­la politica», come spiegava nel 2005 l’allora cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger, par­lando di Solidarnosc, «un movimento che ha saputo far emergere la realtà dell’esperienza umana nella sua dimensione integrale, sem­pre ignorata dall’ideologia marxista». E con­tinuava: «Quel che mi lascia un gusto amaro in bocca è il fatto che, nell’era della globaliz­zazione, esiste lo stesso pericolo di miscono­scere il reale della condizione umana e della sua dignità a beneficio delle nuove ideologie dominanti».
La riscoperta della propria dignità è la condi­zione fondamentale per una rivoluzione non violenta. Non solo nelle azioni ma anche nel­le parole. L’estremismo verbale, l’insulto, l’at­tacco volgare, alla lunga generano odio e spi­rito di vendetta. «Noi non abbiamo bisogno di nemici per sentirci più grandi e più forti: il nostro movimento parla con tutti e non è con­tro nessuno», scriveva padre Tischner nella sua Etica della solidarietà, un vademecum in­dispensabile per chiunque voglia mettere in atto una rivoluzione non violenta. L’io co­sciente della propria forza morale non teme il dialogo. Chi ha a cuore la dignità e la verità è​ disposto a negoziare su tutto il resto, anche con il peggior nemico. Così nel 1989 si è mes­so fine al comunismo. Un metodo che può valere anche per le nostre imperfette demo­crazie.