Agorà

LA STORIA. La lacrima di Angèle, nata due volte

Massimiliano Castellani venerdì 4 ottobre 2013
Nei Mandarini Simone de Beauvoir ha scritto: «In tutte le lacrime indugia una speranza…». Ad Angèle Lieby, è bastata una sola, ma preziosissima lacrima, per uscire dal buio in cui era precipitata e per tornare a sperare di poter vivere ancora. Prima del dramma, viveva dentro un quotidiano semplice, ma felice, condiviso con il marito Ray nel loro appartamento di Schiltingheim, alle porte di Strasburgo, una figlia Cathy che «ci ha resi nonni di due splendide nipoti, Célia e Mélanie», racconta Angèle. Sì perché la sua storia è una di quelle che una volta scampata, è il caso di dirlo, «miracolosamente alla morte», non poteva non essere raccontata. Angèle che di mestiere faceva l’operaia in una fabbrica che produce carrelli per i supermercati («installo le monetiere sulle barre metalliche») per scrivere questa storia che in Francia ha fatto versare tante lacrime di commozione (200 mila copie vendute nelle edizioni Les Arenes), ha chiesto aiuto a un giornalista, Hervé de Chalendar, con il quale ha apposto la sua firma a Una lacrima mi ha salvato (Edizioni San Paolo, pagine 168, euro 14,90)). Un libro che scortica le coscienze e che è stato scritto per «dare voce a colui che la medicina deve servire: il paziente». Un j’accuse, ma senza rancore, rivolto a quel «5% di dottori» specializzatissimi nella loro branca, ma troppo spesso superficiali e poco sensibili dinanzi al dolore del malato e dei suoi familiari, ai quali manda a dire: «Ciò che prova un paziente non è sempre la maggiore preoccupazione dei grandi medici. Avere tra le mani la vita di un essere umano non ti trasforma necessariamente in un dio». Sintesi di una vicenda realmente accaduta, in cui la fantasia ancora una volta viene ampiamente superata dalla realtà. Il 13 luglio del 2009, vigilia della festa nazionale francese, Angèle avverte un formicolio e accusa una terribile emicrania. Viene ricoverata d’urgenza all’ospedale di Strasburgo e i medici cominciano a brancolare intorno a una diagnosi nebulosa che si risolve in maniera spicciola con la decisione di far "cadere" la paziente in coma farmacologico. Ma il buio indotto e "terapeutico" diventa assoluto. «Nella mia notte arrivano solo singhiozzi soffocati. Ray è andato via e mi sento persa. Mi accorgo che quello che provo non corrisponde a ciò che trasmetto». Questa donna che fino al mattino di quel 13 luglio si sentiva in formissima e, a detta di tutti, molto più giovane dei suoi 57 anni, era misteriosamente sprofondata in un pozzo cieco, senza nessuna via di risalita. Una situazione surreale, il cervello di Angèle aveva spento la luce, lasciando però aperto il sonoro, all’insaputa di tutti. Le sue orecchie si erano sostituite agli occhi: «Devo sentire tutto per capire cosa succede». Una sensazione sgradevole, l’amaro in bocca di chi resisteva ed esisteva ancora dentro un corpo (alimentato da un sondino, attaccato ai macchinari) che per qualche medico però era ad un passo dall’ultimo viaggio. «I medici stavano per staccare la spina, ma io ero viva e sentivo tutto», scrive Angèle che non solo sentiva, ma era «ipersensibile». Il suo corpo non era totalmente inerte, percepiva sulla sua pelle il peso di chi la stava medicando, gli aghi delle punture e delle flebo, l’angusta pratica giornaliera del catetere. Ma soprattutto riusciva ad ascoltare le voci e la tristezza, condivisa nel suo silenzio, delle persone che entravano «due alla volta» nella stanza. Eppure alcuni di quei signori in camice bianco, dopo appena tre giorni di coma e un paio di EEG in cui si riscontravano «rallentamenti, deterioramenti, peggioramenti dell’attività cerebrale», il 17 luglio avevano sentenziato la fine imminente. Un medico che noi chiameremo «dottor Sensibilità», consigliò il povero Ray di andare a prenotare una bara e un posto al cimitero per sua moglie. Nella sua prigione interiore, in quei momenti Angèle subiva tragicamente «un’insopportabile impotenza davanti a un’aggressione. Una sensazione di non essere altro che un oggetto che si può buttare in qualunque momento». Quell’ "oggetto", era una creatura che ascoltava il suo carnefice distratto e indifferente, pronto soltanto a seppellirla viva… Poi all’improvviso uno spiraglio. Il giorno dell’anniversario del suo matrimonio, il 25 luglio, Cathy gli confidava il desiderio di avere un terzo figlio e che avrebbe tanto voluto che la sua nonna potesse conoscerlo, mentre disperata gli sussurrava: «Mamma non devi lasciarci…». Dagli occhi di Angèle a quel punto scese una lacrima. Il segno tangibile di una reazione vitale seguita da movimenti dapprima impercettibili, poi sempre più nitidi e frequenti di chi stava scalpellinando la corazza maligna che finalmente fu identificata come sindrome di Bickerstaff (malattia autoimmune del sistema nervoso centrale). Alla lenta ripresa fisica e alle lacrime di gioia si accompagnava il ritorno al sorriso, il suo e quello delle persone che l’avevano sostenuta e alle quali va ancora la sua immensa gratitudine. «Ogni risata che esplode in questi corridoi impersonali è uno schiaffo alla disgrazia», racconta Angèle che non dimentica quella che oggi, quattro anni dopo, definisce la sua «piccola esperienza», dalla quale ha tratto un insegnamento fondamentale: «So che bisogna superare le proprie sofferenze e avere fiducia nella vita. Se oggi mi sento più fragile del solito, domani posso avere la fede di riuscire a superare le montagne». Fede assoluta nella vita e una verità da trasmettere a chi in questo momento sta brancolando nel buio dal quale lei è tornata: «Una persona può essere perfettamente cosciente anche se all’apparenza sembra in coma irreversibile». Angèle ha ripreso in mano la sua esistenza, non teme le sue fragilità e non ha neanche più paura di invecchiare. Osserva il mondo con gli occhi disincantati della creatura "nata due volte": «Ora so che la vita non è una certezza». Tornata ai suoi amori e al tenero calore della vita domestica, Angèle può sorridere persino del biglietto ritrovato del suo funerale e il ringraziamento più grande va a quella lacrima preziosa: «Avrei voluto poterla tenere per sempre, conservarla in una scatola come un gioiello e poterla ammirare di tanto in tanto».