Agorà

INTERVISTA. La Gomorra dell’acciaio

Massimiliano Castellani giovedì 30 dicembre 2010
«Ilva, caffè, via della porta di casa, pullman numero 3, attraversamento della città, rione Tamburi, autobus per lo stabilimento, stabilimento, cartellino smarcato, ingresso negli altiforni... come un canarino che entra in bocca a un’anaconda». È questo il ritratto reale e impietoso della Taranto metallurgica nel romanzo-documento Vicolo dell’acciaio (Fandango) di Cosimo Argentina. Pagine d’inchiostro incadenscente, nero, come il fumo delle ciminiere dell’ex Italsider che arriva fino ai palazzoni dove sopravvivono in esistenze piccole piccole, le famiglie degli operai. Pagine che fanno male, scritte di pancia e di cuore da questo narratore irregolare scoperto giovanissimo da Raffaele Crovi, con Il cadetto (Marsilio), in cui celebrava già i piccoli fasti e i troppi dissesti della sua città . «Fino ad allora di Taranto ne aveva parlato solo De Cataldo in Terroni. Oggi c’è addirittura un’inflazione di testi di ambientazione tarantina e per la legge dei grandi numeri, per un romanzo buono ce ne sono almeno cinque da dimenticare». Da cancellare in fretta anche il cliché dello "scrittore meridionale". «Non esiste una vera e propria cultura meridionale. Esistono dei temi e il ricorso a un linguaggio. Nel mio caso significa anche cercarsi dentro una lingua che non può che essere quella del luogo in cui ho vissuto trent’anni». La lingua italiana e il tarantino dei quartieri popolari ci parlano di una "gomorra" insabbiata «dalle polveri sottili» che avvelenano questo lembo di Sud dimenticato. «Taranto è un po’ la Manchester del meridione. Un’ex cittadina da 40-50mila abitanti trasformata negli anni ’60 in un centro industriale senza precedenti al Sud. Poi se ne sono dimenticati in fretta. Così ora la città langue in uno stato di assoluto anonimato, nell’abbandono istituzionale. Diciamoci la verità: Taranto non fa notizia perché non è Napoli...». E per il mercato, ostaggio della "teleletteratura" che si celebra nei salotti mediatici di Fabio Fazio e Daria Bignardi, Cosimo Argentina non è mica Roberto Saviano. «Un libro è un libro e anche Gomorra non esce da questo steccato. Penso che Saviano sia un ragazzo che ha scritto un libro e poi sia stato travolto da un meccanismo che non ha nulla a che vedere con il punto di partenza. Non credo che possa esserci una voce della rivolta pro-Sud perché il Sud non esiste... Il Sud è un suq senza mercanzia. Ci sono i venditori, ci sono i compratori, ma non c’è più niente da prendere, perché si sono già intascati tutto. L’unico commercio pare essere diventato quello dell’immondizia. Mentre parliamo, i rifiuti campani stanno viaggiando verso le tre discariche del tarantino». Un grido d’allarme da questo profondo Sud ancora più emarginato che affiora nudo e crudo in Vicolo dell’acciaio.«Per anni l’Ilva è stata vista come una "fabbrica del pane" e solo da qualche anno sappiamo che il rovescio della medaglia è la morte. Ad ogni colpo di vento, Taranto si ricopre di una nuvolaglia che altro non è che metallo ridotto in polvere. Se a questo aggiungiamo le emissioni di gas inquinanti il cocktail letale è servito». Ma dai veleni, ecco che, come ne Il miracolo (film girato a Taranto) di Edoardo Winspeare, spunta un senso letterario nel narrare il territorio ferito mortalmente. La piaga aperta di una classe operaia malata e che per molti si è "estinta" da un pezzo nel nostro Paese. «Mio cognato si alza alle 4 al mattino e lavora a una catena di montaggio. Dire a uno come lui che la classe operaia non c’è più, si rischia una reazione violenta. Forse si è estinta a livello culturale, narrativo, di lotta, ma la "macelleria umana" da reparto quella resta. In Vicolo dell’acciaio, io pongo l’attenzione su tutti quelli che non sono attrezzati per la vita attuale. Quelli per bene, forse troppo per bene. Quelli che non conoscono nessuno, che non hanno amicizie utili e che vengono spazzati via per primi dall’uragano sociale. Questo è l’operaio e la famiglia proletaria, la vittima sacrificale che non scomparirà mai». Così come non scomparirà mai il precariato, specie quello di cattedra. Come altri suoi illustri colleghi narratori (Lodoli, Affinati, Starnone) Argentina fa il professore, insegna Diritto nei licei della nebbiosa Brianza in cui si è rifugiato, in fuga da Taranto. «Ma rispetto a quegli scrittori-insegnanti, sono un precario storico, dal lontano 1988». Un’occupazione instabile, quanto quella degli studenti, il cui disagio il "prof" Argentina ha ben descritto nel recentissimo pamphlet Beata ignoranza (Fandango). «Questi ragazzi hanno bisogno dell’ausilio degli adulti anche per occupare. Sono intelligenti e hanno molto da dire, ma quando il mio vicepreside è uscito da scuola minacciando il 5 in condotta al primo quadrimestre sono entrati tutti a testa bassa. Una classe compatta ha dichiarato che non si sarebbe fermata nemmeno davanti ai carabinieri, ma quando la collaboratrice del preside ha detto "Carabinieri? E chi li chiama? Io chiamo i vostri genitori!", i ragazzi sono scesi a patti. I ragazzi di questa generazione sono migliori di noi, ma non credono nelle loro capacità. Li alleviamo nella convinzione che da soli non potranno andare da nessuna parte e loro restano sul divano in attesa che le cose cambino». Nel frattempo meglio tornare sui banchi e riaprire un buon libro come Vicolo dell’acciaio che potrebbe essere molto utile negli istituti per l’ora di narrativa. «Sulla narrativa "scolastica" credo che si vada avanti a colpi di stereotipi con riferimento a ciò che si è vissuto e invece la scuola è un mondo in continua evoluzione, un magma in movimento e già tra una prima Itis e una terza c’è un abisso. Nelle nostre scuole, i romanzi di Arpino, Pasolini e Sciascia resteranno, ma solo con il salvataggio generoso da parte di insegnanti illuminati. Gli altri continueranno coi soliti Verga, Fogazzaro e pedalare». O correre dietro a un pallone, come il "Krol" del suo Cuore di cuoio> (Sironi), omaggio al calcio di poesia, nella Taranto romantica del "bomber-martire", Erasmo Jacovone. Come Luciano Bianciardi, anche Argentina in ogni libro ci mette sempre una partita di pallone . «Trovo che ci sia un nesso tra il talento nello scrivere e il talento nel trattare la palla coi piedi. Il mondo del calcio poi forse è rimasto l’unico in cui i raccomandati vengono spazzati via e  nonostante gli scandali e le Calciopoli, questo splendido gioco conserva ancora una purezza di fondo». Difficile dire lo stesso del mondo dell’editoria, in cui le 260 pagine dense di Vicolo dell’acciaio diventano un tomo ingombrante negli scaffali invasi dai romanzi di superficie (rigorosamente da 100 pagine), confezionati per le classifiche e per la fabbrica del cinema. «È dura resistere nell’era dei romanzi-sit-com e dei bestseller-sceneggiatura, ma qui ormai bisogna rassegnarci a fare i conti con un’industria in salute che deve irrorare di sangue quella agonizzante».