Agorà

Televisione. La geopolitica delle serie tv

Simone Paliaga martedì 25 ottobre 2016

Eddard Stark (Sean Bean) nella serie "Trono di spade"

«Winter is coming». Il refrain ricorre spesso nel Trono di spade, una delle serie televisive di maggior successo degli ultimi anni. «L’inverno sta arrivando» sulle labbra di Eddard Stark annuncia il ritorno della guerra a Westeros, il continente occidentale. Eppure niente è solo fiction in un mondo come il nostro dove il soft power - le armi culturali di persuasione di massa - la fa da padrone. La serie contiene in germe tutte le paure del nostro tempo: il riscaldamento globale, il terrorismo, il declino dell’Occidente e della democrazia, financo il rinnovo della minaccia russa. Questi timori sembrano influenzare l’immaginario che fa da sfondo alla serie. Come se gli autori fossero ispirati dal clima di incertezza serpeggiante nelle società o il pubblico tentasse di sublimare gli scenari catastrofici attanagliati alla sua vita quotidiana.

Le serie televisive sono in grado di raccontarci la politica internazionale? È la scommessa di Dominique Moïsi, specialista di geopolitica, editorialista del Financial Times e docente a Harvard e al King’s College. Già conosciuto in Italia per la sua Geopolitica delle emozioni pubblicata una manciata di anni fa da Garzanti, Moïsi con La géopolitique des séries (Stock, pagine 198, euro 18) considera le serie un ottimo specchio per interpretare l’odierna realtà politica internazionale. Le serie furoreggiano. Ormai attraggono i migliori sceneggiatori, i produttori più ambiziosi e gli attori diventano stelle dello star system. Per lo studioso francese di relazioni internazionali è il formato seriale, lungo e potenzialmente ricco di personaggi e situazioni, che aiuta a rappresentare fedelmente lo scenario globale attraversato da molte minacce. E a fruirne non sono solo gli spettatori ma pure gli addetti ai lavori.

A provarlo arrivano le parole di un politico di lungo corso. «I due estremismi rappresentati dal Daesh e dal regime di Teheran partecipano a un gioco di troni mortale» ammonisce, il 3 marzo 2015, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu davanti al Congresso degli Stati Uniti. E gioco di troni è la traduzione letterale del titolo inglese del Trono di Spade. Moïsi le assume a testimonianza della validità del suo lavoro. Sarebbe dunque evidente la relazione tra il Medio Oriente attuale e il Medioevo inscenato nel Trono di Spade. Tra essi correrebbe solo la barriera invisibile della finzione. Il politologo abbina la ricca casa Lannister all’Arabia Saudita, il valoroso Stark ai movimenti insurrezionali arabi, Targaryen e i loro draghi agli Stati Uniti e ai loro droni. Ma non è solo la serie uscita dalla penna di George R.R. Martin a parlarci di geopolitica. A ruota arrivano House of Cards, Homeland e la meno nota ma non meno interessante Occupied. Dal 2013 House of Cards racconta la politica americana sotto una luce radicalmente diversa: il protagonista Frank Underwood non è disposto a fermarsi davanti a nulla pur di raggiungere i suoi scopi. Eppure lancia un messaggi agli spettatori. L’antieroe di House of Cards con un cinismo navigato dichiara con impudenza che «la democrazia è seriamente sopravvalutata». Underwood non è però solo il tipico cattivo della politica americana che, alla maniera di Walter White in Breaking Bad, piace almeno tanto quanto repelle per la sua morale disincantata. Rappresenta anche, a giudizio di Moïsi, «la capacità della prima potenza mondiale di parlare di se stessa senza il minimo tabù». E non è forse questo un modo di cantare le virtù della democrazia occidentale? Non costituisce magari una via del soft power teorizzato dallo stratega americano Joseph Nye e assente dalle serie televisive diffuse in Cina o in Russia dove invece prevale un’immagine idilliaca della classe politica al potere? Probabilmente, aggiunge lo studioso d’Oltralpe, quella di House of cards è un’azione di propaganda utile «a rilanciare l’immagine di una superpotenza in crisi». Il messaggio sullo sfondo suonerebbe così: in Occidente la libertà è totale e il potere si può criticare; a Pechino e Mosca no.

E il grande orso russo, pur con una spruzzatina anti Ue, intride la serie norvegese Occupied. Dopo la rinuncia del nuovo primo ministro ecologista scandinavo a fruire dei combustibili fossili la Russia invade la Norvegia. Washington e Bruxelles si defilano. I primi abbandonano la Nato mentre gli europei incoraggiano il paese invaso a subire il giogo russo per soddisfare il proprio fabbisogno di gas. Inutili, al momento della messa in onda, le proteste dei diplomatici russi per come i telespettatori norvegesi siano caduti bersaglio di una propaganda in pieno stile Guerra fredda. Il tema del nemico irrompe anche in Homeland dove l’agente americano Carrie Mathison indaga su Nicolas Brody, il soldato stelle e strisce a lungo prigioniero in Iraq. Al ritorno in patria il militare si accingerebbe a preparare un attentato contro obiettivi sensibili americani. Insomma il nemico prova a nascondersi anche tra di noi.

Forzate o perspicue che siano le analisi di Moïsi permettono uno sguardo meno ingenuo sulle serie che ci inchiodano davanti a schermi e monitor. E consentono, di là dalla loro fondatezza, di vederle con occhio diverso. Magari puntato anche sul mondo che ci circonda.