Agorà

L'intervista. La geografia della nuova Chiesa

Davide Perillo giovedì 9 aprile 2015

Come sta cambiando faccia il cristianesimo? Cosa possiamo imparare noi che siamo già “periferia”? Ecco l’anticipazione dell’intervista di Davide Perillo al professore Philip Jenkins, direttore del centro di Studi delle religioni della Baylor University di Waco (Texas) pubblicata nell’ultimo numero di “Tracce” la rivista internazionale di Comunione e liberazione. Jenkins è il massimo esperto in materia. Sessantatré anni, ha scritto saggi tradotti in 12 lingue, tra cui La terza chiesa (Fazi), I nuovi volti del cristianesimo (Vita e pensiero) e Il Dio dell’Europa (Emi). Nello stesso numero l’attore Michael Lonsdale racconta la sua conversione: «Da Hollywood a Dio. Dal volto celebre sul grande schermo a quello nascosto di un uomo innamorato del Vangelo. Dopo aver vestito i panni del monaco di Tibhirine». E poi lo speciale sulla «Piazza aperta» di Roma per l’udienza del 7 marzo del Santo Padre a Comunione e liberazione. A San Pietro, seduto accanto a Julián Carrón, c’era anche Rowan Williams, ex primate anglicano. Per un’amicizia. E perché «è il momento dell’incontro». Il titolo dell’intervista è «Cosa mi chiede quell’Uomo?». Il messaggio: «Non ci sono comode liste di cose da fare, ma solo l’invito a riscoprire i fondamenti della fede».

«Le periferie? La grande questione è capire che cosa siano. In qualche modo, lo siamo tutti. Tra un po’ di tempo, anche l’Europa sarà una periferia del cristianesimo». E quel «po’» vuol dire proprio poco: trenta, quarant’anni al massimo. «Entro il 2050, quasi un cristiano su tre vivrà in Africa. In Cina ci saranno più di 100 milioni di fedeli, il doppio dell’Italia. Tra i primi dieci Paesi per numero di cristiani non ce ne sarà nessuno europeo». La Chiesa, insomma, avrà un “volto nuovo” e una “nuova mappa”, come recitano i titoli dei saggi di Philip Jenkins, 63 anni, docente di Storia e Religious studies alla Baylor University di Waco (Texas) e massimo esperto mondiale di “geografia delle fedi”. I motivi sono vari. La demografia, che nel tempo sposta i pesi di parecchio (nel 1900 gli europei erano un quarto dell’umanità, oggi sono l’11%, nel 2050 non più dell’8%...). La politica, capace di generare guerre e profughi. La secolarizzazione spinta di certe zone e la vivacità delle Chiese in altre. Ma anche una percezione della realtà tanto comune quanto sbagliata, che «dà per scontato che il cristianesimo coincida con l’Occidente: semplicemente, non è vero». Così, a leggere Jenkins si capisce un po’ meglio perché la fede sia molto di più di forme e modi a cui siamo abituati. Perché, l’agosto scorso, ci siamo ritrovati a bocca aperta davanti ai sei milioni di filippini a messa con papa Francesco a Manila, nell’evento più affollato di sempre. E perché conviene «guardare il mondo dalle periferie», come chiede di continuo lo stesso Pontefice: si vede molto di più dell’oggi, ma si intravvede meglio anche il domani. Come sta cambiando la Chiesa globale?«Probabilmente sta tornando a quello che era molto tempo fa. Nel Primo millennio il cristianesimo era presente in Asia ed Africa, oltre che in Europa: era una religione transcontinentale. È solo nel Medioevo che ha iniziato a identificarsi con la tradizione occidentale. Di fatto, ora sta recuperando le sue condizioni originarie, quelle che le sono familiari. Il futuro della Chiesa cattolica, in particolare, è in Africa e Asia, non c’è dubbio. E il cambiamento più radicale è in Africa: nel 1900 aveva 10 milioni di cristiani, nel 2050 saranno quasi un miliardo». E questo cambiamento cosa comporta? «In molti Paesi, l’espansione del cristianesimo è un fenomeno di prima o seconda generazione. È una fede giovane, più entusiasta, coinvolgente e che vive in una condizione diversa. I cristiani in Occidente non sono abituati a convivere con altre religioni da una posizione di minoranza. Se va in India o in Africa, non solo il rapporto con musulmani, buddhisti o indù è quotidiano, ma non puoi dare per scontate molte delle cose che per noi lo sono. Negli Stati Uniti puoi predicare il Vangelo ovunque, in Asia o Medioriente no. Questo può aiutarci a capire molte cose». Lei sottolinea che è diverso anche il significato di certe parole fondamentali dell’esperienza cristiana. “Martirio”, per esempio. Per noi è un fatto legato al passato, agli antichi Romani o giù di lì. Per i “nuovi cristiani” è qualcosa che tocca la carne: le loro famiglie, la loro storia recente...  Che cosa possiamo imparare da questo?«Prenda Paesi come l’Uganda o la Corea. Lì il cristianesimo è arrivato relativamente da poco e i cristiani hanno dovuto subire persecuzioni fortissime nel secolo scorso. È chiaro che per loro parole come “martirio” o “testimonianza” hanno uno spessore diverso: parlano di parenti, dei loro progenitori, dei luoghi dove vivono. Il fatto è che noi di solito guardiamo alla storia dei cristiani come alla storia di una parte del mondo. Invece ha molte più facce». Ma perché è così difficile per noi occidentali renderci conto di questo cambiamento? Facciamo quasi resistenza all’idea che possiamo imparare dall’esperienza di questi “nuovi cristiani”...«Anzitutto, c’è un motivo di fondo: la religione, in Europa, è stata vista per decenni come un fenomeno in declino, quasi in via di estinzione. Quarant’anni fa, per esempio, si dava per scontato che non potesse più determinare la politica. Poi è venuta la rivoluzione iraniana, e ci siamo trovati a chiederci: “Ma questo che cosa è? Politica o religione?”. È stato il capovolgimento improvviso di un’idea molto diffusa. In più, siamo così convinti che il cristianesimo sia una religione occidentale, che facciamo fatica a immaginarci una Chiesa a maggioranza africana e asiatica».Se è vero che entro il 2050 il Continente più cristiano sarà l’Africa, come può cambiare il volto della Chiesa? «Probabilmente per quell’epoca sia la Chiesa cattolica che le denominazioni protestanti avranno il loro maggior numero di fedeli lì. È inevitabile che dovranno tenere conto di più di quello che interessa agli africani: del loro contesto, di cosa pensano e come vivono. La Chiesa cattolica sta discutendo molto sul rapporto tra fede ed espressioni civili: deve per forza prestare più attenzione ai suggerimenti che vengono da vescovi e cardinali africani. Guardare di più alle loro culture, ai loro stili di vita, al loro tipo di devozione. Tra l’altro, l’Africa sta già esportando cristiani in Occidente: Nord Europa e Stati Uniti, per dire, sono pieni di sacerdoti nigeriani. Gli africani stanno già incidendo direttamente sul modo in cui noi viviamo la nostra fede. Ma se vogliamo avere un’idea di che sviluppo può avere la Chiesa anche dal punto di vista di certe questioni teologiche, bisogna guardare da quella parte». E la Cina? Potenzialmente è un campo enorme da arare. «Lì i numeri ballano. Le stime più probabili dicono che i cristiani cinesi diventeranno un centinaio di milioni entro il 2050. Ma dipende molto dall’atteggiamento del Governo. Al di là delle prese di posizioni ufficiali, negli ultimi tempi il potere ha lasciato crescere le religioni: gli servono per incentivare comportamenti sociali, una certa etica della convivenza civile. E il cristianesimo sta entrando in dialogo con un mondo che non lo conosceva: gente comune, ma anche intellettuali, artisti, persino politici... Ci sono molte conversioni». Ma che cosa ha il cristianesimo che alla Cina serve? «Offre un senso, un significato, in un Paese che ha perso molto della sua struttura ideologica».Altro fronte caldo: il Medio Oriente. La fede è nata lì, ma rischia di sparire...«In Siria e Iraq il cristianesimo è stato quasi spazzato via. Ma in Paesi chiave come l’Egitto è ancora una minoranza forte. Mentre in altri posti, come il Golfo o Israele, c’è un forte aumento dei cristiani dovuto all’immigrazione dai Paesi poveri. C’è una strana coesistenza tra un cristianesimo antichissimo e uno molto recente: vivono fianco a fianco e soffrono entrambi». C’è chi ha paragonato Mosul al genocidio degli armeni sotto i Turchi, iniziato giusto un secolo fa. È un paragone legittimo? «Non so. Oggi il contesto è differente. Le notizie girano molto più in fretta, si viaggia di più. Ci vuole meno tempo per accorgersi di certi fenomeni. In Egitto, per esempio, ai primi racconti di persecuzioni è montata subito una grande pressione anche da fuori perché si intervenisse. In Iraq e Siria molti cristiani sono stati – o vengono – uccisi, è una tragedia; ma la grande maggioranza è fuggita, verso Occidente. Credo che il paragone più calzante sia quello con gli ebrei. Baghdad e Alessandria d’Egitto avevano comunità ebraiche molto numerose, nei secoli scorsi. Sono andati via, tutti».Veniamo all’America. Come sta cambiando il cristianesimo negli Stati Uniti?«Non vedo forti cambiamenti. Qualcuno dice che gli Stati Uniti stanno diventando come l’Europa, si parla di una secolarizzazione incipiente. Non è vero: continuiamo a essere un Paese molto religioso. Rafforzato dall’immigrazione da Asia, Africa e America Latina, che è soprattutto di cristiani. In Europa, le chiese che chiudono diventano altro: di solito, negozi o moschee. Da noi, se una chiesa chiude diventa un’altra chiesa: coreana, messicana, cinese... Il cristianesimo qui sta diventando diverso, ma continua a essere forte. E credo che continuerà così».E l’America Latina? Stessa dinamica?«Sì, ma con qualche differenza. C’è un cambiamento demografico importante: le famiglie sono sempre più piccole. E c’è una secolarizzazione più spiccata. In Argentina sempre più gente si dichiara “non religiosa”. Una volta il Brasile era tutto cattolico: ora è molto cattolico, in parte protestante e con una fetta in crescita di “secolarizzati”. E via dicendo. Lei scrive che in questi processi per noi “la domanda nodale deve essere una: che cosa è l’autentico contenuto religioso e che cosa è bagaglio culturale”. C’è un filo rosso che emerge, tra tutti i cambiamenti? «In sintesi: il ritorno a Cristo. O la scoperta di Cristo. In certi casi l’attrazione verso il cristianesimo si mescola all’interesse per la cultura occidentale. Ma il centro è l’interesse per la figura di Gesù».Ha ragione il Papa quando dice che “dalle periferie si vede meglio il centro”? «Assolutamente. Papa Francesco sta ponendo una serie di questioni importantissime. E lo sta facendo in un modo che molta gente trova affascinante, attraente; il che aiuta a prendere sul serio quello che dice. In Europa e negli Stati Uniti molti agnostici si stanno interessando a lui. Sta creando ponti. Il suo è un grande lavoro». Ma la fede può tornare a crescere anche nella periferia-Europa? «Chissà. Se un cristiano europeo si guarda in giro, si rende conto che l’impulso dato alla fede dal Vecchio Continente ha avuto un certo successo. C’è stato uno slancio missionario grande che ha fatto nascere tante chiese locali. Ora il flusso si inverte, ma è sempre la stessa fede. In fondo è un messaggio incoraggiante».