Agorà

Idee. La forza dei libri è guardare avanti

Marco Ronconi martedì 5 novembre 2019

Nell’antichità classica, i libri – includendo in questa categoria codici, rotoli, volumi e qualsiasi altro supporto scritto per la lettura – erano gli strumenti che facilitavano la relazione tra due o più persone, in particolare tra un maestro e un discente. La trasmissione era impensabile senza un passaggio corporeo, ma questo non era il libro. Le 'parole' per eccellenza erano quelle parlate, dette, pronunciate vis-à-vis, mentre i segni scritti erano facilitatori del dialogo che viveva di quelle parole emesse. Difficile che un antico considerasse 'parole' in senso pieno le lettere tracciate su un qualsiasi supporto, corpi senz’anima, viventi solo nel momento in cui fossero animate da un fiato che se ne facesse carico e desse loro realtà. Famoso è l’episodio di Agostino che nelle Confessioni, vedendo da lontano Ambrogio leggere mentalmente increspando appena le labbra, non riesce a trovare una sola ragione valida per quel modo di fare: per il vescovo di Ippona la lettura era solo ad alta voce e non esisteva altro modo salutare affinché la conoscenza si travasasse di bocca in orecchio. Gregorio Magno, due secoli dopo, amava ripetere che mentre leggeva le Scritture e le commentava per la sua comunità - ad alta voce, va da sé, guardando negli occhi i confratelli - le ascoltava lui per primo, ogni volta di nuovo, e la comprensione cresceva.

Anticamente, il testo scritto, i libri, erano supporti per l’incontro fra due o più soggetti, ed erano ad esso strumentali. Isidoro di Siviglia, qualche secolo dopo, suggeriva al contrario di evitare ogni lettura ad alta voce, ritenendola di ostacolo alla retta comprensione del testo. Nel frattempo, infatti, i maestri erano diventati rari e la tradizione aveva cambiato soggetti: non più (soprattutto) due o più esseri umani, ma (soprattutto) un libro e un uomo (non raramente una donna). Nello stesso arco di tempo, cioè tra il IV e il IX secolo l’iconografia del libro muta e da pagina esibita da Santi e Pantocratori perché tutti possano leggervi, diventano re- liquiari tempestati di gemme, chiusi tra le braccia e custoditi con venerazione. Questo mutamento ha conosciuto ovviamente varie oscillazioni, ma all’inizio del XX secolo i libri anche I Libri per eccellenza ( Tà Biblìa si diceva in greco) - erano spesso trattati non come spartiti da interpretare, ma come scrigni da custodire e da aprire solo in caso di necessità, per estrarvi oggetti da esporre e poi riporre. I libri non erano qualcuno con cui avere una storia, ma depositi di affermazioni, definizioni, valori, morali… Le parole non erano trattate come strumenti che vivono in uno sguardo, ma come cose da comprendere a occhi chiusi. Così facendo, tuttavia, il rischio è stato enorme: trattare i libri come se «i lettori e l’autore stesso siano completamente avulsi, nella convinzione che questo nobiliti il testo letterario, che così diventa autosufficiente, sacro, immodificabile […]. Altra conseguenza di questo approccio è che il lettore, il critico e lo scrittore stesso diventano sovrani, si distaccano dall’opera, si ritengono capaci di analizzarla e di esprimere un giudizio; viene incoraggiata un’illusione di controllo e di indipendenza, propria della sfera tecnico- scientifica; si prendono le distanze dal caos della vita - che sarà pure contenuta» nel testo, «ma non deve uscire dalle sue pagine» ( Tim Parks).

Ma così facendo i libri, inventati per vivere, diventano giustificativi di un simulacro di realtà che di vivo ha ben poco. Eppure, tutti gli amanti dei libri hanno avuto un testo all’origine del loro amore. Tutti abbiamo avuto quella pagina nella quale siamo «caduti amorosi», come dicono i francesi, grati e stupiti che qualcuno l’avesse scritta per noi in quel momento. E non vedevamo l’ora di poterla leggere, un giorno, alla persona amata. In fondo, «la parola scritta sulla carta sta lì in attesa, disponibile, amica delle nostre curiosità, compagna dei nostri desideri. Sembra un miracolo, alle volte, che le parole depositate nelle nostre tradizioni culturali si rivolgano a noi permettendoci di riconoscerci con e in esse» (G. Bonfrate). Può sembrare banale, ma un libro non è l’insieme delle parole che lo costituiscono. Un libro è un crocevia di storie: quella della sua redazione e quella della sua recezione, quella dei suoi lettori e la mia, quando mi sono riconosciuto semplicemente in esso e quando vi sono tornato in epoche diverse della mia vita, scoprendo di essere cambiato con lui, con il libro che mi mostrava da adulto lati invisibili all’infanzia, lasciando intravedere la promessa di un nuovo incontro futuro. Certo, se poi consideriamo il libro nelle sue declinazioni cristiane, è gioco facile ricordare che «la Parola di Dio ha assunto la carne delle nostre ispirazioni e si fa ogni volta storia, provocando il pensiero che, talvolta, può aver bisogno di perdersi per ritrovarsi tra labirinti e biblioteche» (G. Bonfrate). Già, perché chi ha amato un libro non si accontenterà più di un solo libro, e non vedrà l’ora di perdersi per ritrovarsi di nuovo. Magari leggendo ad alta voce a qualcun altro che come lui si è perso e non vuole tornare, ma andare avanti.