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L'artista. La danza di Chiara Bersani: «Disabilità? Vogliamo riscrivere l'immaginario»

Angela Calvini, inviata a Venezia venerdì 16 ottobre 2020

La perfomer Chiara Bersani in "Gentle Unicorn" alla Biennale Danza di Venezia

Inviata a Venezia Un corpo piccino e capelli lunghissimi, Chiara sembra una bambola quando gattona al centro della sala e ti interroga con i suoi enormi occhi verdi guardandoti dritto in faccia. Una performance che combatte gli stereotipi, ma anche il politicamente corretto Gentle Unicorn, l’assolo, in scena questa sera alla 14ª Biennale Danza di Venezia, della danzatrice e performer Chiara Bersani, Premio Ubu 2018 come migliore attrice under 35. Affetta da osteogenesi imperfetta, una forma di fragilità ossea, la perfomer lodigiana è diventata in breve una star internazionale, forte di collaborazioni importanti fra cui Alessandro Sciarroni e Babilonia Teatri proponendo, come dice lei, «un uso politico del corpo». E proprio a tale proposito Chiara, che si definisce una «attivista», ha scritto un intervento pubblico fortissimo durante i primi giorni della pandemia definendo «tossica» la narrazione della disabilità ai tempi del coronavirus. «Carissimo mondo, cara televisione, cari giornalisti, adorati esperti, per quanto sia lodevole il vostro tentativo di dire che il coronavirus è una malattia che per solamente una bassa percentuale della popolazione risulta letale, voi, ogni volta, concludete dicendo che a morire sarò io».

Lei non usa mezzi termini...

Sono nata a Lodi ma ora abito verso il piacentino. Mi ha molto ferito la narrazione iniziale durante la pandemia, che poi non è migliorata molto, della fragilità, la narrazione per cui il corpo sano, giovane e prestante continuava a venire assicurato. Dapprima c’era la retorica di rinunciare alla libertà per tutelare fragili, anziani o persone disabili, per poi arrivare nella fase acuta ad affermare la necessità di sacrificare gli anziani e le persone con disabilità nelle terapie intensive. Una narrazione schizofrenica. Mentre altri Stati arrivavano addirittura a indicare di non curare le persone con disabilità, stilando protocolli spietati. Ma la fragilità riguarda tutti.

Una lezione che fatichiamo ancora a capire, secondo lei?

Questo virus poteva diventare occasione per ricordarci che siamo umani e in quanto tali siamo fragili. Avremmo potuto accettare tutti insieme che non siamo immortali, non solo noi soggetti deboli. Sarebbe stato bello per una volta cercare un senso più nobile in un momento effettivamente speciale. Forse si sarebbe creato un precedente illuminato, forse la cura di sé e degli altri avrebbe veramente occupato per qualche tempo il centro del mondo.

Lei come ha reagito come artista?

Sono andata in crisi, mi sono domandata se avrei avuto ancora voglia di fare uno spettacolo. Ho pensato che non volevo più vedere nessuno, mentre sentivo tutta la violenza di quella “selezione”. Tante cose ora si sono pacificate, ma occorre rimettersi in pista per ribadire quello che penso. Noi come compagnia (composta da Giulia Traversi curatrice ed Eleonora Cavallo produttrice) abbiamo deciso di iniziare in modo più rallentato: una delle grandi questioni è che si sono riaperti gli spazi senza domandarsi, ad esempio, se si fa spettacolo solo per i sani.

Biennale Danza segna il suo ritorno in scena?

Sì, sono molto spaventata e molto eccitata. Spaventata perché è un lavoro sulle relazioni umane tra me e le persone presenti in sala. Questo spettacolo ha una sua storia, e questa volta parto da zero. Il pubblico avrà la mascherina, vedrò volti solo a metà, non potrò avvicinarmi. Ma sarà una sfida che aderisce al concetto di contemporaneo.

Ma cosa simboleggia l’unicorno?

Da un po’ di anni stavo portando avanti la riflessione sul corpo che ha una funzione politica nell’incontro con la società. Io ho un corpo profondamente eccentrico, con una disabilità molto visibile. Ma non volevo parlare di me, il mio corpo ha senso se è spostato su qualcosa di arcaico, su un corpo che non assomigli al mio. L’unicorno è un personaggio dal corpo misterioso, un mito zeppo di significati diversi, pagani, cristiani, favolistici. Volevo riscattarlo.

Come è arrivata al teatro e alla danza?

Sono stata una bambina fortunata perché i miei genitori mi portavano a teatro, ma non ho mai pensato che potesse essere un lavoro. Noi artisti con disabilità in Italia siamo pochissimi, ci sono stereotipi e un immaginario complessi da scalfire. Trasferita a Parma per studiare psicologia all’università, mi sono iscritta a un corso di teatro per incontrare amici. Ma la scuola di Lenz Rifrazioni di Parma era profondamente professionalizzante e dopo un anno e mezzo mi hanno chiesto di entrare in compagnia. Dopo anni di teatro di ricerca fra Italia, Francia e Spagna, è arrivata la danza che è l’ambiente più accogliente e spericolato che abbiamo; è più permeabile al mio corpo, anche come autrice.

Sta preparando anche dei lavori nuovi? Durante la quarantena è nato Cordata, che andrà in Corea e Spagna ma senza di me: sarebbe stato pericoloso, perché ho anche una fragilità respiratoria. Ho lavorato a distanza, creando un paesaggio sonoro di parole e suoni. Gentle Unicorn ripartirà quest’inverno mentre debutterà in Italia Il canto delle balenecreato per il performer Matteo Ramponi.

Il suo lavoro le ha portato riconoscimenti importanti come il Premio Ubu.

È stato il primo Premio Ubu assegnato a una persona con disabilità: è molto bello, non ho mai pensato che avrei vinto. Per me si è aperta una questione enorme. Sì a una apertura, ma che non sia la quota disabili per pacificare le coscienze.

Ma lei si sente un esempio per tutti con il suo coraggio e la sua determinazione?

La questione è sempre pelosa. Noi cerchiamo sempre esempi straordinari, ma la disabilità è qualcosa di estremamente comune e quotidiano. C’è un mondo molto più complesso e importante di cui non si parla mai. Durante la quarantena è nato Al.Di.Qua. Artist (Alternative Disability Quality Artists), un movimento di artisti con disabilità: abbiamo deciso che dovevamo prendere parola. La famosa inclusione è da troppi anni in mano ad altri: noi vogliamo presentare progetti, vogliamo lavorare, vogliamo che autori e registi inizino a guardare al nostro mondo veramente, un mondo composto da insegnanti, giornalisti, artisti con disabilità. Vogliamo riscrivere l’immaginario.