Agorà

STORIA. La confessione del «fascista disubbidiente»

Filippo Rizzi mercoledì 25 luglio 2012
​Le preghiere imparate da bambino quando faceva il chierichetto, recitate in latino fino a pochi minuti prima di morire, l’ammirazione per Sant’Agostino e per la Chiesa dei primi secoli. Sono le prime istantanee che affiorano nella mente di monsignor Giovanni Catti, classe 1924, sacerdote bolognese e discepolo del cardinale Giacomo Lercaro nel ricordare la figura del gerarca fascista Dino Grandi (1895-1988) morto quasi cieco a 93 anni. Toccò infatti all’allora don Catti presiedere le esequie il 23 maggio del 1988 nel cimitero della Certosa di Bologna dell’uomo, il «fascista disubbidiente», che attraverso il famoso ordine del giorno (che portava il suo nome) fece cadere Mussolini e la sua dittatura: il 25 luglio del 1943. «Divenni amico, confidente e poi direttore spirituale di Grandi negli ultimi anni della sua vita – rievoca oggi l’anziano sacerdote dalla Casa del Clero di via Barberia a Bologna – quasi per caso : lui abitava nella centralissima via Alessandrini e divenne mio parrocchiano della chiesa di San Benedetto dove esercitavo il mio ministero di sacerdote. Chi giocò un ruolo in questa amicizia "inconsueta" tra me e Grandi fu la sorella, la moglie di quello che era stato negli anni del Ventennio il direttore amministrativo ed editore del "Resto del Carlino" Aurelio Manaresi. Questa donna minuta, molto cattolica ma non bigotta, spinse suo fratello Dino a riavvicinarsi alla fede e al cattolicesimo. E da qui nacque la nostra amicizia e da allora divenni il suo confessore…».Cosa ricorda dei suoi incontri a Bologna con Dino Grandi…«Sono stati tutti colloqui molto cordiali e dove soprattutto ha sempre regnato un grande rispetto. Rammento che proprio negli ultimi anni della sua vita stava redigendo le sue memorie finite poi, grazie alla sapiente e lungimirante regia di Renzo De Felice, nel libro edito dal Mulino Il mio Paese. Ricordi autobiografici. I nostri incontri si alternavano con la dettatura delle sue memorie redatte dalla sua fedele segretaria Anna Maria Tommasini… Nei nostri colloqui si parlava di fede, di cultura ma anche di attualità politica. Strano a dirsi e forse a immaginarsi ma nutriva una grande ammirazione per Luigi Sturzo e simpatie per una certa idea di socialismo. E poi non dimentichiamo la sua ammirazione negli anni giovanili per figure come Romolo Murri e Giuseppe Toniolo e la sua idea di "socialismo cristiano". Era aggiornato su tutto e soprattutto ha sempre amato il suo Paese e non l’ho mai sentito parlare male di nessuno. Una delle sue caratteristiche più belle, a mio avviso, era il grande rispetto per le persone morte».Per molti è passato alla storia come un "mangiapreti", un uomo lontano dalla fede cattolica. Lei che ricordo conserva di questo personaggio ?«Attorno a Grandi è sempre aleggiata l’immagine di  anticlericale, di romagnolo sanguigno e di fascista della prima ora. Quello che posso dire io, senza varcare la soglia del segreto della confessione, è che negli ultimi anni della sua vita, forse grazie anche alla figura della sorella, aveva recuperato la sua antica fede cattolica mai, in un certo senso, abbandonata. Ricordo che mi raccontò, una volta, della sua ammirazione e del debito verso i padri rosminiani di Bologna che lo ospitarono nel loro collegio durante gli anni dell’università e di studio alla Facoltà di Giurisprudenza. Era molto orgoglioso della sua cultura umanistica, di aver fatto il liceo classico, di sapere il latino e il greco e la filosofia. Tutte cose che, a suo giudizio, lo avevano aiutato a capire meglio l’impronta idealistica del fascismo e le tesi di Giovanni Gentile. Aveva insomma un’idea più raffinata e dotta, ed era lui stesso ad ammetterlo, del fascismo e della sua teoria filosofica rispetto anche al suo leader il duce Benito Mussolini».Gli ultimi anni della sua vita gli permisero un recupero della sua educazione cristiana…«Nessuno rimase sorpreso a Bologna, compresi i figli Franco e Simonetta, della sua richiesta di volere dei funerali religiosi. Posso testimoniare che gli ultimi anni hanno rappresentato per lui un ritorno alla sua fede di bambino e di ragazzo, una riscoperta anche di quei valori appresi dalla madre Domenica Gentilini. Era affascinato dalla Bibbia: conosceva i testi originali in greco. E dei personaggi degli Atti degli apostoli che ammirava di più vi era la figura di Barnaba per la sua prudenza e per il suo stile del "giusto mezzo" nel sostenere l’apostolato di San Paolo di Tarso».Le parlò mai dell’ordine del giorno Grandi….«Molto spesso. Ricordo che mi raccontò della mattinata molto travagliata, trascorsa a Palazzo Venezia con il duce. Mi rivelò che lo stesso Mussolini gli confidò che "l’Italia non era pronta alla guerra ed era impreparata militarmente". Grandi rimase impressionato dai fatti successivi alla votazione: non si aspettava l’arresto immediato di Mussolini. Rimase colpito dal veloce cambio alla guida del governo, della nomina di Pietro Badoglio. Lui non era convinto che fosse la scelta migliore: pensava che ci volesse una figura nuova e non compromessa con il fascismo. Molti storici hanno sempre avanzato l’idea che Grandi avrebbe preferito il generale Enrico Caviglia l’eroe della prima guerra mondiale. Lui, nei nostri colloqui, non mi parlò mai di Caviglia. Posso affermare che sperava in una candidatura più giovane e non compromessa con il passato e soprattutto si augurava di poter giocare, dopo il 25 luglio, la sua carta di ex diplomatico in Gran Bretagna e dei suoi buoni rapporti con la stampa per "salvare" in un certo senso il fascismo ma soprattutto l’Italia. Certamente non si è mai sentito o avvertito come un traditore di Mussolini. Amava ripetere "quando ho dovuto scegliere fra la fedeltà al mio capo e quella al mio Paese, non ho avuto esitazione ho scelto la seconda…"».Quali erano i suoi giudizi su Casa Savoia...«I suoi giudizi cambiarono soprattutto dopo il 25 luglio. Riteneva che il re Vittorio Emanuele III non fosse in grado di governare la situazione. Deplorò come molti italiani la fuga a Pescara dell’8 settembre. Ritenne quella una delle pagine più tristi della storia italiana. L’unica persona della Real Casa di cui ha nutrito una grande ammirazione e stima è stata la principessa Maria José. Ironia della sorte quando Grandi con la famiglia dovette prendere l’aereo da Roma per l’esilio prima in Spagna e poi in Portogallo: quel velivolo era destinato a Mafalda di Savoia che come sappiamo non ne fece mai uso. Gli anni dell’esilio furono durissimi: in Portogallo diede delle ripetizioni di latino mentre sua moglie si mise a fare la modista per sopravvivere. La fortuna ritornò in casa Grandi negli anni del dopoguerra quando ebbe incarichi di rappresentanza per la Fiat e poi divenne proprietario terriero in Brasile fino al definitivo rientro in Italia negli anni Sessanta».Monsignor Catti, Dino Grandi fu veramente uno "strano fascista"?«La sua vita sta a raccontarci questo. Ma fu sempre coerente con se stesso. Era cosciente di essere stato assieme a Italo Balbo una delle poche figure che poteva fare ombra al capo e di essere una voce spesso controcorrente. Non l’ho mai sentito aver rimpianti o pentimenti sul suo passato. Quello che mi ha colpito da sacerdote è stato soprattutto come si fosse preparato alla buona morte, da vero credente. Un lottatore, insomma, ma mai rassegnato, che ha sempre amato il suo Paese».