Agorà

Calcio. L'Italia dice addio al Mondiale di Russia 2018

Andrea Saronni lunedì 13 novembre 2017

Forse doveva succedere, prima o poi. Anche due o tre generazioni di italiani scoprono il sapore sconosciuto, amaro, incredibile, di un campionato del mondo di calcio senza l’Italia, evento verificatosi solo in un anno ormai lontano, il 1958, e in un torneo diverso e limitato. Nel Mondiale globalizzato delle 32 squadre, 14 delle quali europee, noi non ci saremo. E asciugate le lacrime, superato lo smarrimento, questo punto di non ritorno di una crisi dovrà essere sfruttato come un’occasione di ripartenza, di reset totale, dai vertici del movimento fino alla gestione tecnica.

Già, Ventura, il primo imputato, l’uomo che resterà nella storia come icona del grande fallimento. È andato incontro alla partita del destino confermando il controverso modulo 3-5-2, apparso inadeguato nel match di tre giorni prima a Solna. Ma ancora più che sugli schemi, gli occhi dubbiosi dei “50 milioni di c.t.” in servizio permanente attivo sono sugli uomini: finalmente Jorginho al centro della mediana al posto dello scarico De Rossi, ma debuttando da titolare in una notte pesantissima; quindi Florenzi per Verratti e dunque in ruolo da tempo non suo e infine il ripescaggio di Gabbiadini (unica presenza da titolare due anni or sono con Malta) di punta con Immobile. Nuovi, apparenti nonsense, ma in realtà lo svolgimento della partita ha dimostrato fin dai primi respiri che contavano freschezza mentale, muscoli, voglia, determinazione ancor prima di qualsivoglia caratteristica tecnica. Superati i primi giri di orologio riempiti da un San Siro più pulito di quello che ha indegnamente fischiato l’inno svedese, Italia-Svezia si è mostrata per ciò che ci si attendeva, vale a dire un continuo tentativo di arrampicata verso l’area svedese fatta di unghie, di sportellate nelle difese e a centrocampo, di lampi innescati quasi sempre da Jorginho, italiano di maglia e passaporto, brasiliano di nascita e geometria che dava il la alla prima palla gol azzurra (conclusione ravvicinata di Candreva, 27’ e al finale di primo tempo arrembante, costruito su una velocità di palla e di pensiero sparito da tempo dagli occhi dei tifosi in tricolore.

Immobile (40’) vedeva allontanare dalla rete sguarnita da Granqvist una sua zampata destra, seguivano a ruota un sinistro di Parolo di poco alto, Gabbiadini anticipato di un soffio in area piccola, una zuccata un palmo sopra la traversa di Bonucci, a denti stretti per una botta rimediata al ginocchio. Un’Italia che ha iniziato a macinare gioco, a proposito di difesa e difensori, quando - guarda caso - la triade arretrata ha finalmente rinunciato allo sterile e lento palleggio orizzontale perfetto per gli altri, liberi di recuperare uomini e posizioni nel fortino. Ancora dura, ancora tosta, la Svezia: ma al suo attivo, nei primi 45’, solo due sospettissimi tocchi di mano (Darmian e Barzagli) in area azzurra, controbilanciati da un intervento su Parolo in avvio e soprattutto da una goffa quanto violenta ginocchiata su Darmian in avvio di ripresa, rigore solare per tutti, fallo di mano dell’ex Torino per l’ineffabile arbitro spagnolo Lahoz. Ma era poco il tempo per recriminare, e sempre meno quello per scacciare l’incubo.

Il forcing italiano, già prima dell’ora di gioco era incessante, cieco, scandito da cross e tiri, rabbia e disperazione. Ventura mollava qualsiasi ormeggio inserendo Belotti ed El Shaarawy, tutti avanti. Ma energie zero, gol zero, quota zero. San Siro sentiva improvvisamente il gelo di novembre, e intonava l’inno di Mameli. In estate, che dolore, non suonerà.