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La scrittrice. Kim Thúy: «Fuggita dal Vietnam per essere voce di tutti i dimenticati»

Alessandro Zaccuri sabato 20 maggio 2017

La scrittrice vietnamita Kim Thúy al Salone del Libro di Torino (Pasquale Juzzolino)

L’esordio letterario di Kim Thúy non fu propriamente un successo, ma lei lo ricorda ancora volentieri. «Andavo a scuola in Québec - ricorda -, mi imbattei nella parola rebelle, mi venne in mente quello che si diceva in Vietnam e allora... No, aspetti, è sicuro che le interessi?». Nata a Saigon nel 1968, nel momento più drammatico della guerra tra il Nord e il Sud, la scrittrice vive da molto tempo nel Canada francofono, dove è approdata dopo la fuga della famiglia per mare. «Sono stata una dei boat people - dice -, una definizione che per molto tempo ho sperato andasse definitamente in disuso. E invece guardi che cosa sta succedendo nel Mediterraneo». In Italia i suoi libri - a partire da Riva del 2009, al quale è legata la sua fama internazionale - sono pubblicati da nottetempo, che al Salone di Torino ha presentato Il mio Vietnam (traduzione di Cinzia Poli, pagine 144, euro 15,00). Un lungo viaggio tra Oriente e Occidente, raccontato dal punto di vista di un personaggio femminile, Vi, che con l’autrice ha molto in comune. Anche lei, infatti, è una rebelle. «Davvero le interessa?», si sincera Kim Thúy.

Certamente.

«In Vietnam, quando a un bambino scappa una parolaccia, lo si sgrida dicendogli che ha “perso la bellezza”. Un francese magari non ci fa caso, ma la parola rebelle può essere letta come re-belle, ossia come un modo per essere belli di nuovo, per recuperare la bellezza perduta. Una forma di redenzione, se vuole».

E questo lo scrisse nel tema?

«Esatto. Meritandomi uno zero, ma ne valeva la pena. Credo di aver imparato in quell’occasione una delle lezioni più importanti sulla convivenza tra popoli e culture, oltre che sulla scrittura».

E qual è?

«Non conosciamo mai noi stessi fino a quando qualcuno non ci guarda dall’esterno. Il rapporto con l’altro ci arricchisce, ci aiuta a comprendere meglio la realtà in cui viviamo e che diamo per scontata. I canadesi, per esempio, non si domandano mai che cosa sia la pace, perché non hanno mai sperimentato la privazione e il conflitto».

Si considera una narratrice vietnamita o canadese?

«Spero di poter essere la voce di chi, in questo momento, è dimenticato, non ascoltato. Vede, ho vissuto per qualche mese in un campo profughi, ed è un’esperienza che mia segnato in modo indelebile. Non riesco a immaginare che cosa significhi diventare adulti in un posto del genere, ma purtroppo è questo che sta accadendo in molte parti dell’Africa, dove i campi profughi sono grandi come città e le generazioni iniziano a susseguirsi l’una all’altra. Anzi, no: mi correggo. Riesco benissimo a immaginarlo. Per questo mi spaventa».

In che senso?

«Un rifugiato non ha più nulla e, quindi, ha bisogno di tutto. È grato per il cibo che gli viene donato, anche se quel cibo viene paracadutato dal cielo e finisce per terra, in mezzo alla polvere e alla sporcizia. Il profugo lo raccoglie, si sfama, ma in quell’istante è consapevole di aver smarrito una parte della sua dignità. A mancargli veramente è la possibilità di disporre di se stesso. Il potere, in qualsiasi forma, lo attrae. Mi sta seguendo?».

Continui.

«Bene, adesso prenda un ragazzino cresciuto in queste condizioni. Gli dia in mano un fucile, gli insegni come si costruisce una bomba. Devo andare avanti?».

Direi di no. Ma si è mai chiesta se c’è una via d’uscita?

«Smettere di ricorrere alla violenza sarebbe una via d’uscita, tanto per cominciare. E restituire la libertà alle persone, permettendo loro di riconquistare dignità. Di essere rebelles, belli di nuovo. Si può fare, sappiamo che funziona. Proprio come sappiamo che costruire sbarramenti non serve a niente. Ricordo ancora l’euforia con la quale, nel 1989, assistemmo alla caduta del Muro di Berlino. Eravamo convinti che l’epoca delle divisioni fosse finita per sempre. Ancora non mi capacito di come qualcuno, oggi, possa fare affidamento su un muro per risolvere i problemi dell’immigrazione».

I boat people non hanno insegnato niente?

«Di noi nessuno parla volentieri. In Vietnam i libri di testo non fanno parola della nostra storia, perché si dovrebbe spiegare che stavamo fuggendo dal comunismo, che nonostante tutto è ancora l’ideologia ufficiale del Paese. In Occidente la nostra diaspora si è articolata in comunità troppo piccole per poter avere un qualche peso. All’esodo della fine degli anni Settanta sono sopravvissute meno di un milione di persone. Non sappiamo quante ne fossero partite all’inizio. Secondo alcune stime noi superstiti rappresenteremmo meno dell’1% di un totale che resta incalcolabile ».

Che cosa sente di aver portato con sé dal Vietnam?

«La complessità misteriosa di una lingua che, pur essendo scritta in caratteri latini, discende da una struttura ideogrammatica del tutto simile a quella cinese. Noi vietnamiti pensiamo per immagini e ci esprimiamo mediante suoni. È una traduzione continua, un continuo andirivieni da una parte all’altra della frontiera».

L’autrice vietnamita Kim Thúy