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Testimonianze. I parroci di KABUL parlano tutti italiano

Lorenzo Fazzini martedì 27 settembre 2016
Se qualche regista fosse a corto di idee per un film, potrebbe attingere immaginazione e ispirazione da una vicenda, religiosa e umana, vera e documentata, che ha il tratto dell’epopea, il gusto dell’intrigo internazionale, i colori dell’incontro di civiltà, il sapore di una testimonianza cristiana cristallina. Siamo in Afghanistan, considerato spesso in Occidente un Paese retrogrado: «Quando sento alla radio giudicare l’Afghanistan come uno dei Paesi più arretrati del mondo, mi sento ribellare contro la stupidaggine di chi si crede chissà cosa» (padre Angelo Panigati, 1974). Terra leggendaria, ponte fra Medio Oriente ed Asia estrema, dove l’islam è e si fa società, ma non è così monolitico come tanti pensano: minoranze ebraiche, induiste e buddiste punteggiano questo territorio. Sul quale si pensa sia passato nientemeno che l’apostolo Tommaso. E che nei primi secoli della Chiesa (nel 334) contava, ad esempio, anche una sede episcopale a Merv. La leggenda dice anche che fosse la patria di uno dei Re Magi che visitarono il Bambinello. Ma il cristianesimo per 1300 anni non mise più piede a quelle latitudini. E qui incomincia l’epopea:  a Pio XI arriva la richiesta da parte del governo di Kabul di un cappellano per la comunità cattolica di stanza colà. Pio XI, originario di Desio dove aveva ben conosciuto i padri Barnabiti, nel 1931 assegna a quest’ordine religioso la missione di essere la Chiesa in Afghanistan: I parroci di Kabul: dal re ai talebani. Una strana missione tra diplomatici, mujaheddin e beduini (Il pozzo di Giacobbe, pp. 496, euro 35), a cura di Giovanni Rizzi, è l’appassionante resoconto di 80 anni di fede, cultura, incontri, relazioni diplomatiche e personali tra questi sacerdoti e quel Paese che oggi conosciamo (purtroppo) quasi solo per attentati e violenza. Ma che invece ha rappresentato ben altro per i 6 sacerdoti barnabiti che hanno assicurato, senza interruzione, l’assistenza spirituale ai cristiani presenti in quella terra (solamente stranieri, essendo l’evangelizzazione proibita).  Lì questi preti hanno vissuto con multiforme capacità e spirito di adattamento sopraffino. È un obbligo citare i nomi dei sacerdoti che fecero l’impresa: il pioniere Egidio Caspani (1933-1953), cui succede Giovanni Bernasconi (1953-1957). A seguire Raffaele Nannetti (1957-1965), quindi viene il già citato Panigati (1965-1990). Infine da inizio anni Novanta Giuseppe Moretti, che nel gennaio 2015 ha lasciato il posto in terra afghana al confratello Giovanni Scalese. Una vicenda, quella dei preti cattolici nella terra dei talebani, cui perfino il laicissimo The New York Times dedicò un ampio reportage nel 1989 quando fece un sapido e ammirato ritratto di Panigati: «A Kabul è lo straniero più noto. È considerato come uno dei più informati stranieri in città».  E infatti i preti italiani a Kabul sono stati sopraffini analisti di geopolitica, proprio perché insieme alle frequentazioni diplomatiche univano una conoscenza della cultura, della popolazione, della storia del posto di rara profondità. Ne sono un esempio i ficcanti giudizi di padre Bernasconi, il quale già nel 1955 segnalava, in un documento riservato inviato alla Curia generalizia del suo ordine: «In questi ultimi tempi si poté capire da molti sintomi che la Russia aveva aumentato il suo interesse per l’Afghanistan. Da quanto procede sembra chiaro che l’influenza russa sia aumentata di molto e che i sovietici approfittino a fondo nell’attuale situazione». Tanto che l’anno dopo poteva annotare: «Lo slittamento completo degli afghani verso i russi è un fatto compiuto». L’invasione del ’79 confermerà quelle previsioni. Ma lo stesso Bernasconi è acuto profeta quando prevede lo scontro tra popolazione locale (intrisa di islam) e il regime ateo di marca sovietica: «Con il Pakistan l’Afghanistan è ancora l’unico baluardo all’invasione comunista. Il loro fanatismo religioso è un argine alla propaganda comunista». In questa epoca in cui l’islam riempie le pagine dei giornali e sembra spaventare l’opinione pubblica, sono da leggere e assaporare le confidenze che i vari 'parroci di Kabul' fanno circa la fede islamica genuina del popolo afghano. Per esempio, già negli anni Cinquanta Bernasconi può annotare «l’evoluzione lentissima ma reale» dell’islam locale, tanto che nel 1971 Panigati può scrivere: «Si nota un crescente interesse per la conoscenza di altre religioni, specialmente quella cristiana. Sempre più manifesto è un certo risentimento contro i mullah, che si oppongono all’emancipazione – ormai inevitabile – della donna e alla modernizzazione del Paese. Molti di loro sono sta-anzitutto ti imprigionati, tempo fa, per aver provocato manifestazioni reazionarie (per esempio, getto di prodotti chimici contro il volto di donne svelate)». Quindi, un islam a due facce: 'progressista' a livello popolare, chiuso e retrogrado nelle sue guide. Il lavoro dei barnabiti è quanto mai variegato nella capitale afghana: sono direttori di scuola, preti impegnati nella liturgia (il 18 dicembre 1960 viene ufficialmente inaugurata la prima chiesa in Afghanistan da 13 secoli a questa parte), alcuni sono anche 'in incognito', infiltrati tra il personale diplomatico (il caso di padre Ernesto Cagnacci negli anni Trenta). Ma alla fin fine l’identità dei parroci resta quella che li rende, ancor oggi, non così tanto stranieri a Kabul: padre Panigati sul passaporto aveva chiara la dicitura 'guidatore di preghiera'. E la qualifica mullah sahib («il sacerdote dei cristiani ») non è per nulla spregiativa, ma riconosce ai barnabiti il rispetto che anche in ambiente islamico si deve agli uomini di Dio. I quali negli anni Sessanta e Settanta devono compiere anche lo scomodo compito di assistere quegli occidentali che cercavano nella terra dell’oppio una fuga nei paradisi artificiali:  tocca a loro l’ingrato dovere di avvisare genitori o famigliari della morte dei propri cari in terra straniera per l’abuso di droghe varie.  Non sono mancati personaggi famosi di Chiesa passati da queste latitudini: padre René Voillaume, fondatore dei Piccoli fratelli di Charles de Foucauld, che qui arriva in incognito negli anni Cinquanta, per capire se impiantare la sua congregazione. Non toccherà a lui, ma all’amica e compagna spirituale suor Madeleine nel 1955 giungere a Kabul e ottenere l’ok per mandare quattro Piccole sorelle, ancor oggi colà a servire poveri e dimenticati. Lo stesso compito cui nel 2006 possono dedicarsi le Missionarie della Carità di Madre Teresa, alle quali il governo – islamico – permette di insediarsi per il loro servizio ai più poveri.