Agorà

L'intervista a Jung-Myung Lee. La bellezza dell'arte salva dalla crudeltà della vita

Daniela Pizzigalli giovedì 28 gennaio 2016
Nel più claustrofobico degli scenari, la prigione giapponese di Fukuoka, dove nel 1944 languivano gli sconfitti coreani, si svolge il bellissimo romanzo  La guardia, il poeta e l’investigatore (Sellerio, pagine 388, euro 16,00) che esalta la libertà di pensiero e il ruolo formativo della  letteratura. L’autore, il sudcoreano Jungmyung Lee, già affermato in patria, sta conquistando una fama internazionale con questo libro che ha venduto finora un milione di copie, ispirato alla figura del poeta Yun Dong-ju, morto a Fukuoka dov’era internato come sovversivo. «È lui il vero protagonista di questa storia – ci dice l’autore – Anche se durante la sua vita non ha mai pubblicato nulla, le sue opere sono state scoperte dopo la guerra, e adesso è uno dei poeti più amati della Corea del Sud. Io sono cresciuto leggendo le sue poesie, che cito ampiamente nel romanzo, e ho sempre ammirato la sua vita esemplare». I personaggi principali del romanzo, come indicato dal titolo, sono tre: oltre al poeta Yun, ci sono la guardia Sugiyama e l’investigatore Watanabe, voce narrante del romanzo, incaricato di far luce sull’omicidio della crudele guardia odiata da tutti i prigionieri. L’indagine assicura alla trama il ritmo e la tensione di un grande thriller, ma quando Watanabe comincia ad interrogare Yun e attraverso di lui conosce meglio il percorso umano di Sugiyama, si delinea il vero significato del romanzo, sul potere salvifico dell’arte. «Sugiyama Dozan – spiega ancora Jung-myung Lee – è la guardia giapponese che ha bruciato le poesie di Yun. Ha vissuto una vita indegna, è diventato un aguzzino senza cuore, un crudele censore che denunciava e bruciava tutti i libri e le lettere dei prigionieri, eppure avviene in lui un profondo cambiamento nel riconoscere la sublime bellezza della musica e della letteratura. Nel mezzo della terribile guerra del Pacifico, Sugiyama salva la vita al poeta, testimoniando la bellezza che attraverso l’arte può essere raggiunta dagli esseri umani nonostante la crudeltà della vita reale». Un’intensa scena del romanzo descrive l’occasione di un concerto dato in prigione come una fonte di commozione e di mutamento interiore sia per i prigionieri coreani che per le guardie giapponesi. E pensare che si tratta di una musica quanto mai lontana dalla loro cultura: il coro del Nabucco di Verdi, Va pensiero. «La musica è la forma più immediata, elementare di linguaggio, e a volte può essere un mezzo di comunicazione migliore del linguaggio stesso. Io non conosco quasi per niente l’italiano, ma comunque mi commuove profondamente la musica di Verdi, Vivaldi, Rossini, e adoro ascoltare le canzoni di Luciano Pavarotti. Questo è possibile perché siamo tutti esseri umani. Il dolore e la nostalgia degli ebrei, che migliaia di anni fa furono deportati a Babilonia, potrebbero non essere così diversi dalla disperazione dei coreani del ventesimo secolo, che avevano perduto la loro patria e aspettavano la morte nelle prigioni giapponesi. La musica, con la sua raffinata bellezza, ha l’incredibile potere di trasforma- re questa tristezza e disperazione in una nuova speranza. Anche se ci troviamo ai lati opposti del mondo, abbiamo un aspetto differente e parliamo lingue diverse, possiamo comunicare fra noi con il linguaggio della bellezza e della verità». Anche la letteratura ha questa capacità comunicativa universale, tant’è vero che i personaggi del suo romanzo citano e amano i grandi autori della letteratura occidentale. Sugiyama dialoga con Dostoevskij, Watanabe capisce di essere innamorato del giovaneWerther di Goethe, Yun recita la Preghiera per amare il dolore di Francis Jammes. «I coreani, pur apprezzando la propria letteratura, nello stesso tempo conoscono bene la letteratura occidentale, sia classica che moderna. Purtroppo ormai la gente dedica meno tempo a leggere, con l’invasione di dispositivi digitali e videogiochi, ma comunque molti coreani hanno allargato la propria visione del mondo e sviluppato la propria sensibilità leggendo opere letterarie straniere. Gli scrittori coreani si ispirano a diversi grandi autori occidentali, cominciando da Omero e Sofocle. Un’influenza particolarmente forte sulla letteratura coreana l’hanno avuta la poesia simbolista e i romanzi veristi, oltre ai più recenti postmoderni. Noi scrittori coreani sposiamo efficacemente lo stile letterario occidentale, producendo opere che mantengono una forte identità coreana ma riescono allo stesso tempo a essere universali. Gli autori occidentali citati in questo romanzo, come Reiner Maria Rilke e Francis Jammes, non sono solo i miei preferiti, ma anche quelli di Yun, che adorava leggere le loro opere da studente». Nel suo libro, Yun si mostra un cattolico fervente, e cita più volte l’evangelico discorso della montagna: è molto diffuso il cristianesimo in Corea del Sud? «La famiglia di Yun era cattolica, e l’atmosfera spirituale delle sue poesie deriva in parte da questa formazione. Il cristianesimo è molto presente in Corea del Sud. Secondo le statistiche del 2014, il 50% dei sud coreani hanno dichiarato di essere religiosi, e il 56% di questi erano cristiani, quindi il 28% della popolazione totale. Il cattolicesimo è stato portato in Corea del Sud oltre 200 anni fa. Molti credenti all’inizio hanno sofferto il martirio: 103 di loro sono stati santificati e 124 beatificati. La chiesa cattolica coreana è stata ed è di enorme sostegno nella società, aiutando i poveri e lottando contro le ingiustizie sociali, inclusa la dittatura militare. Quando lo scorso agosto Papa Francesco è venuto in visita in Corea del Sud ha portato un fondamentale messaggio di riconciliazione e giustizia». Sebbene si svolga nel 1944, è un romanzo di perenne attualità. «Oggi il mondo è in una situazione di sofferenza senza precedenti: regnano la disuguaglianza, l’instabilità e la disarmonia. Ci sono moltissime minacce davanti a noi: la crisi economica globale, la polarizzazione della ricchezza, la povertà endemica, la discriminazione e l’estremizzazione dei conflitti ideologici. Abbiamo perso la strada, e vaghiamo senza meta in questo mondo incerto e instabile. In un certo senso ci troviamo nello stesso campo di battaglia dove hanno vissuto Yun e Sugiyama, circondati da persone nutrite di odio e violenza. Però quello che dovremmo temere è la paura stessa, e quello che dovremmo odiare è l’odio stesso. Il recupero della nostra umanità e spiritualità può rinascere solo dalla semplice constatazione che siamo tutti esseri umani. E l’arte, suprema verità, bellezza e bontà creata dagli esseri umani, è come uno specchio che ci richiama alla nostra vera identità, spingendoci a diventare migliori».