Agorà

Il festival. Joyce, dall’Irlanda a Spoleto

Alessandro Zaccuri martedì 30 giugno 2015
Il teatro, e il teatro di Henrik Ibsen in particolare, occupa un posto importante nella formazione del giovane James Joyce (1882-1941). È su Ibsen che si concentrano i primi esperimenti critici dello scrittore irlandese ed è a Ibsen che si rifà, per linguaggio e situazioni, la sua unica prova prettamente teatrale, e cioè il dramma Esuli (1917), tanto tradizionale e addirittura “borghese” da non sembrare neppure opera sua. Il teatro di Joyce va cercato altrove: nello scambio rapidissimo di battute di alcuni racconti dei Dublinesi, nella deriva visionaria di certi episodi di Ulisse e, da ultimo, nel delirio organizzato di Finnegans Wake, il romanzo-non-romanzo al quale si può accedere solo per immersione, proprio come accade nelle installazioni dell’arte contemporanea. Occorre partire da queste premesse per apprezzare in tutta la sua complessità e ambizione il lavoro che il regista Giancarlo Sepe sta compiendo da un paio di anni sui materiali joyciani in collaborazione con Marioletta Bideri per Bis Tremila e il Teatro Stabile d’Abruzzo. L’impresa si inserisce in un contesto ancora più ampio, dedicato ai grandi scrittori di Dublino: le Favole di Oscar Wilde nel 2012, poi il fortunato Beckett in camera da letto e, dal 2014, le performance ispirate ai Dubliners. Un allestimento, quest’ultimo, che ha nel Festival dei 2 Mondi la sua sede naturale, concepito com’è per gli spazi severi della chiesa di San Salvatore a Spoleto.Nella versione proposte in questi giorni (si replica quasi tutte le sere da domani all’11 luglio) i Dubliners di Sepe si articolano in due parti. La prima, già vista lo scorso anno e ancora di fortissimo impatto, prende spunto dal racconto conclusivo della raccolta, il celebre The Dead, “I morti”, già magnificamente adattato per il cinema da John Huston nel 1987. La novità del 2015 è dunque costituita da Ivy Day, alla base del quale sta il racconto più dichiaratamente politico dei Dublinesi, vale a dire “Il Giorno dell’Edera nel comitato elettorale”. La distinzione, però, è prevalentemente concettuale, perché nello spettacolo la soluzione di continuità è appena accennata e il pubblico rimane immerso – come accadrebbe per Finnegans Wake, appunto – in un’unica sarabanda di apparizioni e azioni sceniche, danze sfrenate e false partenze, sbronze e canzoni, cortesie e contese.I momenti di parola sono rari e spesso risolti in una sorta di rumore di fondo. Per precisa scelta registica, inoltre, i giovani e bravissimi attori della compagnia Teatro La Comunità si esprimono sempre in inglese. A tenere le fila, del resto, è proprio un inglese o, meglio l’Englishman interpretato da Pino Tufillaro, un po’ maestro di cerimonie e un po’ Mefisto faustiano. È lui a guidare la danza macabra in cui si risolve gran parte dell’allestimento ed è lui, più che altro, a opprimere quel popolo straccione e orgoglioso al quale, come esito dell’oppressione, viene data la lingua con cui dare voce alla rivolta. La contraddizione è la stessa patita da Joyce e, in vece sua, dal protagonista dei “Morti”, l’intellettuale Gabriel, che nel corso del racconto è più volte accusato di essere un “anglofilo”. Della trama originaria la versione di Sepe conserva il finale, nel quale Gabriel viene a scoprire un segreto di gioventù della moglie Gretta e si abbandona a una solenne meditazione sulla neve che cade «su tutti i vivi e su tutti i morti». In Ivy Day il riferimento al testo è ancora più labile, ma non per questo viene meno la suggestione dell’insieme. Il tricolore dell’indipendenza sembra trionfare sull’odiato vessillo dell’Impero britannico, ma è ancora l’Inglese ad avere la meglio, quando la carestia torna a mordere l’Irlanda. Spettacolo impegnativo, non si discute, ma quelle pietre bianche che si sostituiscono alle patate nei sacchi dei contadini bastano, da sole, a ripagare dello sforzo di attenzione.