Agorà

Letteratura. La riscoperta di Jouhandeau, scrittore maledetto

Maurizio Cecchetti venerdì 11 agosto 2017

Il cielo dei mediocri, è questo il vero inferno. Non importa se un uomo fa il bene oppure il male, importa come lo fa; ovvero la mediocrità è esecrabile anche in chi fa il male, e il male minore se fatto per tiepidezza è il peggiore dei peccati. Potrebbe a grandi linee essere il nucleo morale dell’intera opera di Marcel Jouhandeau (18881979). Scrittore “maledetto” che ha fatto scandalo per la sua volontà di scendere fino al fondo dell’abisso, dell’abiezione (titolo di un suo libro). Soltanto un grande peccatore merita la redenzione, chi sta nel mezzo non vale, sembra dire, il sacrificio di Cristo sulla croce. Posizione estrema, provocatoria, che corre sul crinale di una esistenza torbida, ma non contraddittoria.

In realtà, Jouhandeau fin da giovane sentì crescere in sé una inclinazione omosessuale; cattolico anche se lontano delle pratiche religiose – «vivo abitualmente nel peccato, ma vivere nel peccato non significa che si viva al di fuori della Fede: senza Fede non ci sarebbe peccato» –; sposato in età ormai matura, ma pronto a contrassegnare il legame matrimoniale di una particolare crudeltà e perfidia (si leggano le Cronache maritali); considerato quasi un eretico per il gusto apparentemente avido delle cose abominevoli; ecco, Jouhandeau appartiene a una letteratura francese che da François Mauriac a Georges Bernanos fino a Julien Green ha raccontato il tema religioso – anche quando i protagonisti non erano esplicitamente figure di credenti – a tinte forti, come una lotta che rappresenta il male per portarne alla luce l’invidia verso il bene. Esiste, per citare un altro suo libro, un’“algebra dei valori morali” che non fa due più due. Jouhandeau è scrittore poco tradotto da noi. Ci aveva provato negli anni Sessanta Feltrinelli con le Cronache maritali, poi più niente fino al 1996 quando Adelphi pubblicò l’inquietante Tre delitti rituali. In cento pagine Jouhandeau raccontava tre casi efferati di cronaca vera: il più tremendo ha per protagonista un prete giovane che uccide la sua amante diciottenne che egli ha messo incinta: poi le squarcia il grembo, ne estrae il feto, lo battezza e infine lo uccide. Il giudice, disgustato, gli chiede se dopo un delitto così orrendo non abbia sentito l’impulso di togliersi la vita, ma il parroco con una calma davvero inquietante risponde: questo mai, sarebbe come cedere alla disperazione, e questo peccato Dio non lo può perdonare.

Anche la bibliografia su Jouhandeau è avara, nota Ena Marchi che dopo aver tradotto Tre delitti rituali ci ha dato recentemente sempre per Adelphi la versione di un racconto lungo tratto dal “ciclo di Chaminadour”, Il cadavere rapito. Nel 1938 Claude Mauriac, il figlio dello scrittore cattolico premio Nobel, parlando dell’opera di Jouhandeau usò l’espressione «mistica dell’inferno »; e l’inferno torna sempre quando si tratta di Jouhandeau, che Jacques Roussillat nel 2002 ha soprannominato le diable de Chauminadour. Jouhandeau ha un occhio acuto per la provincia francese. Al centro del Cadavere rapitoc’è – guarda un po’ – la figura di un curato in un paesino della Nuova Aquitania, vicino a Guéret (dove lo scrittore era nato). Bisogna dire subito che non ha molto dei preti di Mauriac, Bernanos o Green, salvo il camminare sul crinale dove bene e male, virtù e vizi si scambiano spesso le parti.

La crudeltà di Jouhandeau ha forse qualcosa della franchezza di Léon Bloy, ma rispetto al grande scrittore apocalittico si esprime con ironia più perfida. Osserva e delinea tipi umani, situazioni, ambiti di vita della provincia dove vengono alla luce i risentimenti verso il bene che montano in certe piccole comunità umane con l’invidia dei fedeli che si scatena verso il nuovo curato che sembra celare un segreto inconfessabile. È misantropo e distante come un idolo nuto, padre Diverneresse. Claude Mauriac ne paragonava la figura ai «santi dipinti da Cosmè Tura» (bella notazione, dato che il pittore ferrarese all’epoca non è che fosse proprio sulla bocca di tutti), ma leggendo l’incipit a me ha fatto pensare piuttosto alle figure arcaiche, come scolpite nel legno, di Georges de la Tour (ed è possibile, se si pensa che la riscoperta del pittore cominciò proprio a metà degli anni Trenta, con la mostra dei Pittori della realtà in Francia nel XVII secolo). «Alto e sottile, padre Diverneresse aveva il volto color bronzo di chi vive al sole; la testa e le mani parevano scolpite in vecchio legno di ciliegio; abituate all’immobilità assoluta, erano diventate oggetti, vere e proprie “cose”, cose pressoché eterne, preziose, cariche di luce interiore».

Sì, Georges de la Tour, non c’è dubbio (e la misantropia aristocratica dello scrittore corrisponde anche alla storia del pittore, uomo carico di ombre e di risentimenti). Questo strano prete che si atteggia come un re Salomone in cerca della sua Regina di Saba, per alcuni è un Simon Mago, «perché somigliava all’immagine un po’ arcigna di quel falso profeta», per altri – vista la parsimonia che usa nell’esercizio dei doveri pastorali – «un monaco» o «l’arciprete del Paradiso». Aveva abiti sacerdotali sontuosi (che facevano ombra a quelli dell’arcivescovo), sapeva ricamare («con l’ago era abile come una fata»), leggeva e fumava accanitamente, e quella nebbia di fumo diventava il diaframma fra sé e il mondo. La canonica era tappezzata di libri, e padre Diverneresse vagava nel suo studio, «dove in mezzo a tanti libri non aveva letto nulla », con l’aspirazione di scrivere «una monografia di poche pagine», ma «in cinquant’anni non ne aveva tracciato che il titolo». Pieno di contraddizioni, egli odiava il proprio odore ma per non subire le critiche di chi avrebbe potuto accusarlo di profumarsi troppo, si cospargeva di fenolo «col risultato che spandeva al suo passaggio un “sentore di morte”» che i bambini avevano ribattezzato «puzza di don Diverneresse». Non entrerò nella trama che condurrà il parroco, incline alla mistica dei predestinati, a suscitare i pettegolezzi e l’invidia dei parrocchiani, che presto insinuano su di lui le cose più turpi, provocando la sua sospensione da parte dall’arcivescovo e la convocazione a Chaminadour – da dove cinquant’anni prima era partito – per verificare le dicerie. Padre Diverneresse, prende il treno ma muore prima di arrivare all’incontro. Quella morte improvvisa di un prete che da cinquant’anni non faceva ritorno al suo paese, scatena un improvviso culto dei suoi concittadini che in quel tragico ritorno vedono un segno divino, il «santo che Dio ci manda».

Esilaranti le pagine dove lo calano dal treno seduto, così come il rigor mortis lo ha fermato, lo mettono in una poltrona e lo conducono in processione. Diverneresse diventa per loro il santo che non avevano ancora, sebbene l’arcivescovo ribadisca «le sentenze di sospensione dei poteri e di scomunica totale»... e perfidamente Jouhandeau chiude il teatrino così: «che per fortuna, e secondo il parere degli stessi giuristi ecclesiastici, non possono colpire i morti». Il contrasto fra istituzioni ecclesiastiche e devozione popolare (segnate entrambe dalla follia che monta in protagonisti e comparse) è il tema di questo ironico racconto, che guarda alla figura del prete con disincanto, ma senza dissacrazioni. E il pensiero più che a Bernanos o Mauriac va a Simenon, col quale anche Jouhandeau – ha scritto Roussillat – «individua nelle sue creature la forza, l’impulso che le spingeranno verso il loro destino – un destino talvolta sublime, talvolta grottesco, non di rado tragico». Come il segreto che porta il giovane Diverneresse a farsi prete. E dietro la sua figura si colgono i riflessi personali e il pensiero del grande scrittore.