Agorà

LE STORIE. John Brown. E il mito vive ancor

Roberto Beretta domenica 29 novembre 2009
John Brown è morto da 150 anni, «ma l’anima vive ancor». Eh sì: colui che ha fatto cantare «Glory glory hallelujah» a intere generazioni di gitanti da torpedone e boy scout in lieto cerchio serale, è stato giustiziato sulla forca il 2 dicembre 1859 a Charles Town. Ma chi era davvero codesto Giovanni Bruno (nomen omen per un paladino dei neri...) – che per l’America sarebbe poi come dire Mario Rossi? Nato nel 1800 nello Stato del Kansas (il più abolizionista del West), bianco, John Brown ebbe il grado di capitano prima della guerra di secessione in una milizia chiamata freesoilers: anti-schiavisti che però avevano la curiosa pretesa di riservare ai bianchi una parte delle terre appena tolte agli indiani. In questa veste fu responsabile del massacro a fil di spada di 5 coloni sudisti, il 24 maggio 1856 nel Kansas sud-orientale, e si ripetè il 16 ottobre 1859 in Virginia, quando assaltò un deposito federale per munire di armi gli schiavi neri. Proprio per questo episodio (che provocò la morte di due marines e 10 dei suoi 18 seguaci, tra cui due figli) Brown – pur gravemente ferito – fu condannato alla pena capitale: anche perché gli schiavi che voleva liberare in realtà non si mossero affatto. Dunque John Brown era un eroe o un farabutto, un nonviolento oppure un sanguinario (persino l’anti-schiavista Lincoln giudicava che la sua causa fosse giusta, però non i suoi metodi)? La questione non è ancora decisa neppure ora negli Stati Uniti, dove il 150° viene celebrato con due mostre di segno opposto o quasi: una a New York che esalta «l’abolizionista e la sua eredità», un’altra in Virginia più critica intorno a «principi e opere» del celeberrimo personaggio, soprattutto con riferimento ai suoi sistemi. Del resto l’ambiguità sul mito del liberatore di schiavi risale fino alle sue origini, in quanto la vicenda venne presa a pretesto dagli Stati del Sud per rafforzare le convinzioni secessioniste che sarebbero sfociate di lì a poco nella guerra (1861). Tuttavia fu usata anche dallo scrittore Henry David Thoreau (che pure fu uno dei progenitori della nonviolenza...) per imbastire una conferenza di forte «apologia del Capitano John Brown», letta appena prima dell’esecuzione capitale del suo eroe e nella quale tentava di difenderlo dalla campagna di stampa che l’aveva portato al patibolo: «Questi uomini, insegnandoci a morire, ci hanno insegnato a vivere». Esempio subito seguito da Victor Hugo, il quale il giorno dell’esecuzione fece pubblicare su vari giornali una lettera aperta in cui lo paragonava a Spartaco e dichiarava: «Per noi che preferiamo il martirio al successo, John Brown è più grande di Washington». Pro Christo sicut Christus è l’epigrafe che lo stesso Hugo dettò poi per Brown morto, col che uno spiritista anticlericale (Hugo, appunto) poteva stabilire che un ex massone puritano – tale era Brown – aveva agito «come Cristo e al suo posto» (o «per lui»)... In effetti però qualcosa di religioso nella missione del capitano antischiavista c’era: figlio di un rigoroso calvinista per il quale la schiavitù era un «atto contro Dio» – ma chissà poi quanto c’è di credibile in certe biografie apologetiche vergate a posteriori... –, John Brown avrebbe maturato i suoi sentimenti attraverso esperienze giovanili come il soggiorno presso uno schiavista che maltrattava i neri e l’assassinio di un amico editore di un giornale abolizionista. Poi John ebbe 20 figli da due successive mogli: 10 sopravvissero e 6 maschi (oltre a un genero) lo seguirono nelle sue battaglie, l’ultima compresa. Per mantenere la numerosa prole fece un po’ di tutto – allevatore, commerciante di lana, conciatore –, forse viaggiando anche in Europa ma comunque con scarsa fortuna: tanto che collezionò una serie di fallimenti. Nel 1849 si installò con la famiglia in una «comune» nera costituita da un filantropo nello Stato di New York. Sei anni più tardi partiva con 5 figli per il Kansas, dove era in atto una lotta armata tra i coloni schiavisti e i freesoilers fautori della «terra libera» (per i bianchi). Lì si svolsero gli episodi d’arme che i sostenitori di Brown definiscono «battaglie» e i detrattori «stragi». Di fatto il «capitano» – ma lo era davvero? – combatteva con tattiche di guerriglia, veloci e spietati raid contro i Border Ruffians, le bande schiaviste. Usava anche tecniche di spionaggio: fingendo di essere un geometra incaricato di misurare i terreni, s’intrufolava con qualche aiutante tra i gruppi militari avversari per scoprirne i piani. La autorità avevano posto una taglia sulla sua testa e per questo Brown si nascondeva in paludi difficilmente accessibili. Peraltro dovevano difenderlo parecchio anche la sua reputazione di violento e il fatto che il suo gruppo girava ben armato. Doveva avere anche notevoli doti oratorie, che esplicò pure al processo finale: i suoi stessi nemici gli davano infatti atto di intelligenza e integrità morale, oltre che di coraggio. Dal 1857 in poi si dedicò in pieno alla causa militare anti-schiavista, recandosi spesso a Boston per cercare fondi tra la borghesia abolizionista e trovandovi in effetti una solida sponda nella società clandestina dei «Sei Segreti»; non riuscì invece a convincere l’ex schiavo Frederick Douglass, divenuto uomo politico di punta dell’abolizionismo. Nella primavera del 1858 Brown riprese la sua campagna violenta, attaccando alcune fattorie per liberarne gli schiavi, che poi accompagnò per 600 km fino in Canada. Il 16 ottobre si impadronì di un’armeria e poi di un treno, ma subì il fatale contrattacco dell’esercito inviato da Washington e guidato dal generale Lee: il futuro comandante in capo sudista, che appunto lo consegnò alla giustizia. Questa è la storia. Il resto è mito, costruito intorno all’eroe antischiavista; o al fanatico sanguinario? Chissà. In un modo o nell’altro, «l’anima vive ancor»...