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JAZZ. Uri Caine: «Gershwin? La sua anima era klezmer»

Alessandro Beltrami giovedì 20 giugno 2013
​Quel singhiozzo che a sorpresa sembra quasi spezzare il glissato del clarinetto è un indizio. Quello che segue è la conferma: la Rapsodia in Blu di Uri Caine è diversa da tutte quelle che avete ascoltato. Addio grande orchestra o big band, al suo posto un’orchestrina da caffè di cinque soli elementi e sonorità che oscillano tra cabaret, musica klezmer, ritmi latini, dance floor anni 70. Con un’abbondante dose di ironia. Dopo le <+corsivo>Variazioni Goldberg<+tondo> di Bach e le Diabelli di Beethoven come le sinfonie di Mahler, smonta e ricostruisce a modo suo le musiche di George Gershwin in Rhapsody in Blue, cd (e lp) in uscita martedì prossimo.Le sue canzoni sono gli standard jazz per eccellenza. La «Rhapsody» è considerata parte del repertorio classico. Che musica è quella di George Gershwin?Gershwin va in molte direzioni. La tragedia è che sia morto così giovane. Ha scritto molto per gli show di Broadway, è stato un grande improvvisatore, poi ha scritto musica con alto grado di formalizzazione. La musica fi Gershwin è tante cose assieme e per questo vivrà più a lungo di tante altre.In questo progetto ha scelto di insistere qualcuna di queste direzioni o ha lavorato su tutte?Per le songs ho sperimentato molti stili: dal jazz più convenzionale, un po’ alla Ella Fitzgerald, fino a un approccio che incorpora elementi della musica contemporanea. Per la Rhapsody in Blue in particolare l’idea era di estrapolare e sviluppare alcuni elementi della sua musica, a partire dagli ebraici, a cui appartengono le sue origini. Come per altro quelle di molti musicisti americani arrivati dall’Europa dell’Est.In realtà sono anche le sue. Vede somiglianze tra lei e Gershwin in questo senso?Prima di tutto so di non essere al livello del genio di George Gershwin... No, in realtà non vedo grandi paralleli. Il suo lavoro, a differenza del mio, si è svolto soprattutto nello show business. Io sono nato e cresciuto a Philadelfia, una città molto afroamericana. Negli Stati Uniti la gente bianca chiama "jazz" generi musicali molto popolari come ad esempio il country... Il fatto di essere americano ed ebreo non mi fa più vicino a lui. Quando da giovane musicista ho cominciato a lavorare con altri cantanti e strumentisti ho capito che dovevo studiare Gershwin perché i suoi standard sono alla base del repertorio. Ma la mia generazione ha come riferimenti Miles Davis e John Coltrane.Lavorare su Gershwin è più semplice che su Mahler o lo sembra soltanto?Forse la seconda. La gente accetta che Gershwin possa essere un veicolo per l’improvvisazione mentre non è abituata a sentire improvvisare sulla musica classica. Ma il fatto che tutti abbiano lavorato su Gershwin costringe a impegno e responsabilità maggiori.Quest’anno si celebrano i bicentenari della nascita di Verdi e Wagner. Lei ha lavorato sulla musica di entrambi: che sfide ha dovuto affrontare?In Wagner e Venezia, del 1997, sono partito dalla lettura dei suoi diari, in cui racconta di aver ascoltato nei caffè concerto della città arrangiamenti di sue opere. L’idea era prendere questa musica, così spesso pomposa, e metterla nelle mani di un’orchestrina jazz. Nel progetto non c’è molta improvvisazione, mentre la si può trovare nei miei recital di piano solo su musiche wagneriane. È una sfida ancora più difficile, perché le armonie sono estremamente complesse e senza mai un momento di riposo. Il progetto su Verdi, Othello-Syndrome, in un certo senso è stato più facile perché la musica di Verdi ha una straordinaria energia ritmica. L’armonia è sì più semplice, ma è di una precisione assoluta nella capacità di narrare. Mi sento più in sintonia con Verdi. La musica italiana ha immediatezza. E l’immediatezza è personalità.