Agorà

LA SCOMPARSA. James Hillman, poeta dell'anima ma non filosofo

Mario Iannaccone sabato 29 ottobre 2011
James Hillman – morto ottantacinquenne, giovedì, nel Connecticut – fa parte di quei rari intellettuali che, come Jung e Campbell, hanno saputo manipolare e canalizzare le potenti trasformazioni dell’immaginario più recente. Iniziò come uno psicanalista classico, completando la sua formazione nel tempio junghiano di Zurigo che diresse per dieci anni (1959 al 1969). Patì poi una crisi profonda e cambiò strada iniziando a contestare il sistema junghiano, così gerarchico e “patriarcale”. In sintonia coi tempi, radicalizzò l’uso terapeutico che Jung faceva delle figure del mito inventando la Psicologia Archetipica. Fu il più radicale tentativo di usare in modo strumentale il patrimonio d’immagini e metafore del politeismo antico. Nella sua opera più influente «Re-visione della psicologia» (1975) tracciava il programma di questa psicologia pensata con l’ambizione di curare intere società, non singoli pazienti. Come? Tornando agli dèi per rompere, più di quanto avesse osato Jung, con la forma del monoteismo. Non propose un politeismo in senso proprio ma una sua forma distaccata, da salotto, che molto compiace certa intellighenzia. Guarire se stessi e gli altri giocando con gli abiti di scena dei personaggi mitici, soprattutto greci (parlava di “grecità psicologica”); immedesimarvisi, incorporarne il potere e lasciare che la nostra immaginazione venga così “curata”. Chiamava «archai» i motori di questo teatro-gioco e raccomandava di leggere i miti per sentirsi Apollo o Persefone, Pan o Afrodite. Hillman non parlava di Ego o Sé, come i suoi maestri, ma di Anima (psyche), che concepiva come una struttura plastica, multicentrica e relativa che, nel travestimento e nello psicodramma, fa trovare centri e identità provvisorie. Il successo di Hillman, nel clima neospiritualista, fu grandissimo. I suoi libri vendettero molto (in Italia lo scoprì Adelphi) e le sue conferenze erano sempre affollate. Nel bestseller «Il codice dell’anima» (1996) e in molti altri volumi iniziava alla pratica di riconoscere i miti che “vivono in noi”, di impersonarli, di sfruttarli. Con quel volto severo ma pronto al sorriso, predicava un nuovo politeismo scettico, metaforico, tecnico. Uno spazio animato di dèi e demoni, rinati per “curarci” contro la società materialista che ci separa dalla nostra Anima. Nei suoi libri si richiamava – oltre che a Jung, l’iniziatore, che abbandonò per paura – a Plotino e ai teurghi della tarda grecità; ai poeti romantici dell’immaginazione gnostica; a Nietzsche e ai fenomenologi; a Ficino e a tutto il Rinascimento neoplatonico. Il pensiero magico possedeva per lui una particolare forza di guarigione (dell’anima e della società). La grande università cattolica dell’Indiana, Notre Dame, lo celebrò nel 1992 in un festival dedicato alla Psicologia Archetipica, revival del politeismo soft. Ed è bizzarro, perché se esistono gravi lacune nel suo pensiero queste riguardano proprio il cristianesimo, rigettato da lui in toto. Il cristiano – scriveva in un testo del 2005, «Un terribile amore per la guerra» – divide fra bene e male e conserva l’idea del peccato; condanna la superstizione «mettendo al bando ogni forma di comunicazione con l’invisibile che non sia Gesù». Peggio: trascura «libri e studio, per cercare nei sentimenti intimi risposte semplici a problemi complessi». «Poeta dell’anima»? Così piace ai suoi estimatori ma certamente non può essere considerato un «grande filosofo». Come capita di leggere in questi giorni.