Agorà

Europa dell’Est . Ivan Medek, l’apostolo del dissenso

Roberto Beretta mercoledì 22 luglio 2009
È stato uno dei 5 invitati alle seconde nozze di Václav Havel nel 1997, quando il drammaturgo e fondato­re di «Charta 77» ha sposato in se­greto l’attrice Dasa Veskrnova, po­chi mesi dopo la scomparsa della prima moglie Olga Havlova – mol­to amata dai praghesi. Ed è stato per quasi 6 anni, dal 1993 al 1998, il braccio destro del presidente ce­co al Castello di Praga, come suo fedelissimo capo di gabinetto.Ep­pure pochi immaginerebbero che Ivan Medek – oltre che anticomu­nista a tutta prova, tra i primi fir­matari di «Charta 77», dissidente a lungo perseguitato dal regime e costretto ad espatriare dal 1978 al­la caduta del Muro – sia anche un cattolico, anzi un convertito: per­ché non è del tutto scontato pen­sare che l’intellettuale più «laico» del dissenso, il presidente agnosti­co Havel, abbia personalmente vo­luto al suo fianco un credente con­vinto come Medek. Eppure lo rac­conta il protagonista stesso, che oggi ha 84 anni e vive a Praga, in un libro intitolato «A gonfie vele» nel quale raccoglie alcune conver­sazioni radiofoniche autobiografi­che e che la ricercatrice udinese Tiziana Menotti ha tradotto in ita­liano sia per la sua tesi di specia-­lità, sia con la speranza di trovare un’editrice che faccia conoscere anche da noi la straordinaria espe­rienza di un uomo purtroppo poco conosciuto nel Belpaese.E invece Medek viene da una fami­glia molto nota in Cecoslovacchia: la nonna materna di Ivan, rimasta vedova di Antonín Slavícek (il maggiore esponente dell’impres­sionismo ceco, morto suicida ap­pena quarantenne), si era risposa­ta con il pittore Herbert Masaryk, figlio di Tomáš Garrigue Masaryk primo presidente della Cecoslo­vacchia dalla fondazione delle Re­pubblica nel 1918 al 1935. Casa Medek dunque fu per tutti gli anni Venti uno straordinario foyer cul­turale, ma anche politico, assai vi­vace e accolse molti degli spiriti più creativi della nazione. Anche Rudolf Medek, padre di Ivan, ar­ruolatosi nel 1917 come volontario per combattere gli austriaci in Russia, era poeta e scrittore. Né la vena artistica familiare si era esaurita lì: Mikuláš – fratello mino­re di Ivan, morto nel 1974 – è con­siderato uno dei maggiori rappre­sentanti della pittura contempora­nea ceca. Ivan, nato nel 1925, ha talento da musicista: ha studiato al conservatorio fino al colpo di Stato filo-sovietico del 1948, poi ha fatto il manager nella Filarmonica ceca prima di essere licenziato per mo­tivi politici, quindi ha lavorato presso una casa discografica, poi come inserviente in un ospedale, da lavapiatti in un’osteria: sempre più giù nella scala sociale ma sem­pre senza perdere la sua dignità e l’aristocratica ironia. Nel 1968 Me­dek ha partecipato pure ai fermen­ti della Primavera di Praga con Ha­vel («Era il più giovane di noi ma a­veva le idee molto chiare e assun­se la direzione» del gruppo, testi­monia). Nel frattempo però aveva incontrato il cristianesimo: «La conversione di Ivan Medek al cat­tolicesimo – scrive Tiziana Menotti – avvenuta negli anni Cinquanta acquisì vigore per la frequentazio­ne di diversi sacerdoti che avevano resistito alle pressioni del regime per una Chiesa nazionale staccata dal Vaticano, pagando con la per­secuzione e il car­cere duro la loro fe­deltà a Roma. Tra questi c’era An­tonín Mandl, colla­boratore del cardi­nale Beran e segre­tario dell’Azione cattolica cecoslo­vacca che, come molti altri prelati, aveva trascorso pa­recchi anni in pri­gione prima di es­sere rilasciato negli anni Sessanta». Padre Mandl introdusse Medek presso numerosi sacerdoti dissi­denti, come l’abate e poeta Ana­stáz Opasek (arrestato nel 1949 con l’accusa di tradimento e spio­naggio per il Vaticano e condanna­to all’ergastolo nel 1950), Ota Má­dr, Josef Zverina, Antonín Bradna o il salesiano padre Mrtvý: «Dopo essere usciti di prigione si incon­travano di tanto in tanto e a volte mi invitarono alle loro riunioni. Lì conobbi persone che non dimenti­cherò. Quasi cominciai a invidiare le loro esperienze del carcere. No­nostante le guardie spesso li aves­sero picchiati e fossero stati volgari con loro, essi avevano conservato una libertà radiosa, quale pochi a­vevano al di là del muro del carce­re. L’attività di questi cristiani fu stimolante sotto tutti gli aspetti. Essi ad esempio aprirono discus­sioni pubbliche tra cristiani e marxisti. Era sempre pieno di gen­te, accadeva davvero qualcosa. Durante la normalizzazione que­ste attività furono vietate, ma un seme rimase e più tardi da esso nacquero vari gruppi indipenden­ti ». Grazie a tali conoscenze, Me­dek diventa uno dei principali col­legamenti tra dissenso laico e reli­gioso: «Nel marzo 1968 – ricorda – Karel Pilík, un prete cattolico che come gli altri sacerdoti scarcerati non aveva il nulla osta dello Stato per l’esercizio dell’ufficio sacerdo­tale e lavorava come operaio, pro­pose una petizione per rivendicare la distensione del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, il ripristino delle scuole ecclesiastiche, l’insegna­mento della religione, la nomina dei vescovi e così via. Stilammo la petizione e Pilík pro­pose di farla firmare anzitutto ai vescovi. Io avevo a quel tempo un’automobile Škoda e andammo dai vescovi. Incominciammo con il vescovo Tomášek; non era ancora cardinale. Rifletté a lungo, ma alla fine firmò. Poi, uno dopo l’altro, facemmo visita agli altri vescovi. Moltissimi di loro avevano una paura terribile. Erano stati rilascia­ti dal carcere con la condizionale e non volevano ricadere in qualche violazione. Ma firmarono tutti. Poi andammo nei monasteri e alla fine facemmo firmare la petizione ai credenti. Raccogliemmo circa 336.000 firme. Consegnammo la petizione, ma loro la bloccarono. Non se ne fece assolutamente nul­la ». Nel gennaio 1977 Medek è uno dei primi fra i 1900 firmatari di «Charta 77»: «Me la portò un ami­co al caffè nel dicembre 1976. Dis­se che avevano riflettuto se farme­lo firmare, perché per me poteva significare la fine dell’esistenza. Dissi che lo sapevo, ma firmai. A volte, dopo Natale, ci riunivamo nell’appartamento di Havel e ordi­vamo piani. Lì si decise chi sareb­be stato il portavoce e quando sa­rebbe seguita la riunione successi­va, doveva essere in gennaio. Solo che finimmo in trappola». Medek viene subito licenziato, ma fa causa alla ditta e durante il pro­cesso il suo avvocato chiede inutil­mente che venga letto in aula il motivo del licenziamento, cioè «Charta 77»: un pretesto per ren­dere pubblico il documento. «Nel maggio 1978 – continua Medek – mi capitò un fatto spiacevole. Do­po un interrogatorio alla polizia segreta mi portarono via di sera con gli occhi bendati in un bosco. Mi pestarono un poco finché persi conoscenza, se ne andarono e mi lasciarono lì. Allora pensai che se volevo compiere davvero un lavo­ro proficuo, non potevo farlo in patria in quelle condizioni». Me­dek lascia dunque il Paese per tra­sferirsi a Vienna, dove lavora per le emittenti radiofoniche Voice of A­merica e Radio Free Europa svol­gendo un importante lavoro di controinformazione diretta alla Cecoslovacchia. Solo nel 1989 potrà tornare in pa­tria: «All’incontro di fine anno di Charta 77 e dei suoi fautori incon­trai Václav Havel, a quel tempo già presidente. Gli chiesi un’intervi­sta. Il presidente mi ricevette al Castello il 14 gennaio. Mi chiese che cosa poteva fare per me. Dissi che ero venuto a chie­dergli che cosa potevo fare io per lui». Infatti, dopo aver lavorato qualche tempo per il governo, Medek diven­ta – già anziano – il braccio destro di Ha­vel. «Fu uno dei periodi più belli della mia vita. Václav Havel è una persona enormemente interessante e bisogna prenderlo così com’è. È anche una persona straordinaria­mente coraggiosa. Si è rivelato tale in tutti i momenti della sua vita: in prigione, durante gli interrogatori e durante il lavoro in ufficio. Inol­tre è sensibile, vulnerabile: ciò non dovrebbe corrispondere al suo coraggio. Non ha la pelle dura. Ed è molto modesto. Quei 6 anni al Castello per me non significaro­no soltanto lavoro e spesso deci­sioni politiche complicate, ma so­prattutto la possibilità di conosce­re da vicino una persona di cui so­no convinto che, per la nostra re­pubblica, abbia fatto più di qual­siasi altro».