Agorà

Il dibattito. L’islam si rivolta ma non governa

Olivier Roy lunedì 13 gennaio 2014
Con l’eccezione dell’Iran, i movimenti islamisti non hanno fatto la rivoluzione. Una rivoluzione però si è verificata comunque, la Primavera araba, ovvero l’improvviso collasso dei regimi autoritari. Il dato rilevante è che questi regimi sono stati sostituiti nell’immediato dal vuoto, anche perché i movimenti di contestazione odierni sembrano non aspirare a prendere il potere. E si può osservare en passant che questa sfiducia verso il potere non sembra essere una specificità del mondo arabo, come possiamo vedere guardando alla situazione europea attuale. Non so dire se questo sia un bene o un male, ma è certo che ci troviamo oggi di fronte a forme protestatarie di contestazione dalle quali non emergono personalità carismatiche che abbiano una vocazione ad esercitare il potere. Comunque sia, i partiti islamisti si sono trovati in Tunisia e in Egitto alla prova della gestione del potere.Con quali risultati? Nessuno, se non l’evidenza che essi non sanno gestire il potere. In Iran la situazione è diversa, prima di tutto perché gli islamisti possono contare sulla rendita petrolifera, senza la quale il regime sarebbe crollato da molto tempo, e in secondo luogo perché praticano una fuga in avanti permanente in politica internazionale [...]. Tornando però ai partiti islamisti sunniti, la loro gestione del potere dimostra in fondo che esiste un’autonomia di fatto del politico, cioè che non ci sono risposte religiose a domande tecniche. Meglio adottare un’economia di mercato, o un’economia statalista? Meglio negoziare con il Fondo monetario internazionale o farne a meno? Su tutte le questioni di fondo, come la disoccupazione, il rilancio economico, l’organizzazione della società, questi partiti non hanno risposte. In Egitto e in Tunisia hanno trascorso mesi e mesi a discutere del posto della parola “islam” nella Costituzione, e sono giunti a soluzioni che rappresentano compromessi politici tra le diverse fazioni che costituiscono il Parlamento. Non sono assolutamente l’espressione di una ricerca teologica. Questo è particolarmente evidente in Tunisia, dove il progetto di Costituzione uscito dalla Commissione è profondamente ambiguo. Per i laici l’ambiguità è fonte di preoccupazione, ma a mio parere essa è un fatto positivo: ogni Costituzione deve essere ambigua, perché una Costituzione non esprime mai uno stato di cose, ma deve offrire un ventaglio di possibilità. Gli americani, che sono dei grandi costituzionalisti e per i quali la Costituzione è quasi una religione, discutono ancora, dopo duecento anni, sul senso del primo o del secondo emendamento, ed è una cosa buona. In sintesi dunque, il problema degli islamisti al potere è il fatto che nel riferimento religioso non c’è nulla che consenta di gestire il potere, né, cosa più interessante e grave, di fare una politica estera. La politica estera di tutti gli Stati islamisti è infatti una politica nazionale, che riprende esattamente le costanti dei regimi precedenti, e nel caso dell’Iran in un modo certamente più aggressivo. I partiti islamisti non sono in grado di fornire una nuova visione dal Medio Oriente, come si vede nella crisi siriana: certamente essa sfugge a chiunque, ma nessun attore ha una risposta di tipo islamico, a cominciare dagli stessi attori islamici. Poste di fronte a questo stato di cose, le forze islamiste al governo devono compiere la scelta di separare il religioso dal politico nella forma istituzionale del movimento. Esse hanno due possibilità: passare dalla parte del politico e costituirsi in partito puro, abbandonando la dimensione religiosa (è quello che ha fatto il partito Akp in Turchia [...]); oppure possono mantenere dei movimenti religiosi paralleli che si occupano esclusivamente della predicazione. È quello che in apparenza avevano fatto i Fratelli musulmani, creando un partito politico che si occupava di politica, mentre la confraternita è rimasta esattamente il movimento religioso di prima. An-Nahda in Tunisia non è arrivata al punto di dichiarare questa separazione, perché il padre fondatore, Ghannoushi, al momento vi si oppone. Ma perché i partiti islamisti hanno questo problema? Perché in fondo non possono rinunciare al riferimento religioso, non possono secolarizzare se stessi, dichiarando che non sono più islamisti: sarebbe la fine della loro legittimità specifica, la fine della loro storia, diventerebbero dei partiti banali. È questa la ragione per cui mantengono il riferimento religioso.Ma il problema del religioso che si fa politico sorge nel momento esatto in cui si afferma che la legge dello Stato deve essere la legge di Dio. Chi decide che cos’è la legge di Dio? Chi ne certifica la conformità? Chi controlla i guardiani? È un vecchio problema ed è una contraddizione fondamentale di tutti i sistemi religiosi. L’Iran islamico ha risolto il problema stabilendo che un uomo, chiamato “la Guida”, è chiamato a decidere sulla conformità delle scelte politiche rispetto all’ideale religioso. Il risultato però è che la Guida è diventata un attore politico, totalmente ideologico, e non è più rispettata dalla grande maggioranza della popolazione perché è considerata alla stregua di un capo partito [...]. L’altra soluzione è designare un’istanza neutra, come per esempio l’Università di al-Azhar o una commissione speciale di ulema, che si pronunci sul riferimento islamico. Il problema sembrerebbe così risolto. Tuttavia, che cosa accade quando questa commissione non è d’accordo con il voto del Parlamento in merito a una legge? Chi fa da arbitro? Se è la commissione islamica a svolgere questo ruolo, essa non è più un’istanza di arbitrato, ma diventa il potere politico. Comunque la si giri, l’idea che le decisioni politiche siano sottomesse alla legge religiosa non regge, poiché decidere il significato del religioso diventa un atto politico. Per salvare le apparenze, i governi islamici finiscono per fare del riferimento religioso un puro marcatore simbolico da inserire qui e là: il velo per le donne, una tassa speciale sull’alcol, e altre cose simili; tali provvedimenti però non costituiscono un programma di governo. Si tratta quindi di sistemi contraddittori e fragili, come si vede quotidianamente. E da qui nasce il disincanto degli elettori.