Agorà

ANALISI. Se non è l’islam a fare «primavera»

Olivier Roy sabato 25 febbraio 2012
​La grande ondata di re-islamizzazione della vita quotidiana che ha investito il Medio Oriente arabo a partire dagli anni ’70 sembrava con ogni evidenza aver favorito nel campo politico le ideologie islamiste, allontanando le società arabe da una democratizzazione che in Occidente viene associata alla secolarizzazione. La grande sorpresa della primavera araba è che la rivendicazione politica si è esercitata al di fuori del riferimento all’Islam anche se in precedenza non si era registrata alcuna tendenza verso la secolarizzazione. Il fatto è che l’ascesa dell’islamismo è sembrata essere la causa della re-islamizzazione della società mentre, probabilmente, ne era solo un sintomo. In parole povere, in Occidente si è preso troppo alla lettera lo slogan degli islamisti: «Nell’Islam non vi è separazione tra il mondano e il divino, tra il religioso e il politico», ciò che peraltro non è la stessa cosa. L’islam politico è stato in larga parte una re-islamizzazione delle grandi ideologie precedenti o, piuttosto, un’islamizzazione del concetto di ideologia politica: marxismo e panarabismo sono stati "islamizzati". Tutta una generazione di militanti politici si è probabilmente riconosciuta in questa ideologia islamica negli anni ’80 e ’90, ma per la nuova generazione l’Islam politico fa parte, in una certa misura, del passato: i successi (l’Iran, l’Afghanistan dei talebani), come i fallimenti (la repressione in Egitto, la guerra civile in Algeria), non sono sufficienti a suscitare entusiasmo. L’islamismo si è infranto contro il suo stesso progetto di utopia politica anche se resta forte su un punto: la richiesta di un riferimento all’Islam in campo politico. Ma tale richiesta oggi è molto diversificata ed è ripresa da diversi gruppi, come i salafiti. Il paradosso della re-islamizzazione è che essa è andata di pari passo con due grandi tendenze: l’individualismo e la diversificazione del campo religioso. Non è più la umma, la fusione con la comunità, a situarsi al centro della preoccupazione dei nuovi credenti, quanto piuttosto la fede, la realizzazione di sé, la ricerca di un nuovo equilibrio: in parallelo con le aspirazioni dei <+corsivo>born-again<+tondo> cristiani, il born-again musulmano ricerca innanzitutto una via spirituale, una riconciliazione della sua fede e del suo essere nel mondo. Naturalmente la diversificazione è frutto anche di questa individualizzazione e dello sviluppo di un mercato del religioso: si può vagabondare, cercare il proprio maestro spirituale al di fuori della moschea del quartiere, si può confrontare, comporre e addirittura andare a cercare altrove (convertirsi). Non vi è più alcun monopolio del religioso: cosa che hanno compreso molto tardi sia gli islamisti (che pensavano di essere gli unici a offrire una trasposizione dell’Islam in campo politico facendo leva sul riferimento olistico dell’Islam tradizionale: tutto è nel Corano), sia gli ulamâ di Stato (al-Azhar), incapaci di difendere il copyright che si arrogano sulle interpretazioni del Corano. È quello che hanno compreso tutti i piccoli o grandi imprenditori del religioso: gli <+corsivo>imam<+tondo> di quartiere, i predicatori televisivi, i dispensatori di fatwa su internet, i quali hanno saputo cavalcare la domanda di diversificazione del religioso. Quella del mercato d’altra parte non è sempre una metafora: anche qui vi è una dimensione economica. L’islamismo classico che fa della religione un’ideologia e ne dà il monopolio a un partito politico si oppone all’apertura della religiosità. Questa tensione compare d’altronde anche all’interno dei partiti islamisti dove i giovani Fratelli egiziani, per esempio, recalcitrano e non vogliono più obbedire ciecamente alle consegne dell’amîr. Bisogna ammettere che lo sviluppo di quello che ho chiamato "neo-fondamentalismo" o salafismo, lungi dall’essere un ritorno della tradizione, è un’espressione moderna di questa individualizzazione e "de-socializzazione" del religioso. In breve, il fondamentalismo è una creazione e un agente della modernità, ciò che apparve chiaramente con la riforma protestante (che sarebbe inutile associare unicamente al secolarismo, allo sviluppo dei diritti dell’uomo e dei Lumi). Ecco dunque il paradosso della primavera araba: non è associata alla secolarizzazione, ma a un mutamento della religiosità in cui individualizzazione e diversificazione del religioso procedono di pari passo. Esiste un rapporto analogico tra i due registri (lo spazio politico della democrazia e lo spazio religioso dell’individualizzazione della fede), ma non un rapporto filosofico o teologico che farebbe dipendere la transizione verso la democrazia da un’interpretazione del corpus teologico. È questa la ragione per cui, sulla scia della primavera araba, le grandi correnti religiose hanno difficoltà a "razionalizzare" il loro rapporto col politico: devono o accettare il pluralismo; o allearsi a elementi conservatori non religiosi (l’esercito in Egitto) per tentare di ristabilire un partito dell’ordine di fronte ai disordini; o ritirarsi dal politico, ciò che è la tentazione di alcuni salafiti.