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MOSTRA DI VENEZIA. Islam e Occidente, la Nair cerca il dialogo

Alessandra De Luca giovedì 30 agosto 2012
​L'incontro tra mondi, culture diverse è il pane del suo cinema. Naturale allora che la regista Mira Nair, vissuta tra India e Stati Uniti, si sia innamorata dell’idea di portare sullo schermo il romanzo di Mohsin Hamid, The Reluctant Foundamentalist, che, tradotto in 25 lingue, ha venduto oltre 25mila copie. Il film, che ieri tra gli applausi ha inaugurato fuori concorso la 69esima Mostra del Cinema di Venezia (in Italia arriverà nel 2013 distribuito dalla Eagle di Tarak Ben Ammar), esplora uno dei temi portanti di questa edizione del festival, il fondamentalismo, osservato questa volta da punto di vista di un pakistano. Il protagonista, Changez Khan, è infatti un giovane di Lahore che attratto dal sogno americano studia a Princeton diventando un brillante analista di Wall Street, innamorato di una giovane artista americana interpretata da Kate Hudson. Manhattan è ai suoi piedi proprio quando gli attentati dell’11 settembre scuotono la città di New York e il mondo intero. Trattato con sospetto, guardato come un potenziale terrorista, Changez (interpretato da Riz Ahmed, che abbiamo visto in Road to Guantanamo e Four Lions, commedia nera sul fanatismo islamico) diventa "l’altro" e comincia a interrogarsi sulla propria identità, constatando il crollo del sogno americano dominato dal  fondamentalismo economico delle agenzie di rating, pericoloso tanto quanto quello politico, e il bisogno di un sogno pakistano. Tornato in patria, diventa allora un professore universitario e il carismatico leader degli studenti. Al racconto breve di Hamid, che ha collaborato alla sceneggiatura, è stato aggiunto un atto finale che amplia il contesto della storia aggiungendo una dimensione da "spy movie" che nel romanzo è assente e dando un peso maggiore al giornalista americano al quale il protagonista racconta la sua storia (nel film ha il volto di Liev Schreiber) dieci anni dopo gli attacchi terroristici. Un esercizio di guarigione e riconnessione personale. Con queste parole la Nair, per la quinta volta al Lido, ha spiegato la difficoltà di affrontare, come regista indiana, una storia ambientata nel Pakistan contemporaneo. «Mio padre viveva a Lahore prima della separazione tra India e Pakistan – dice – mentre io ho conosciuto questa terra solo sei anni fa. Volevo che questa storia raccontasse non la divisione tra due mondi, ma il dialogo tra Est ed Ovest per poter gettare un ponte tra l’America e il mondo Islamico. Ho sempre creduto di essere su questa terra per poter raccontare di persone che, come me, vivono tra due mondi». La regista, che nel 2001 aveva ritirato il Leone d’Oro per Moonson Wedding due giorni prima della tragedia del World Trade Center, così ricorda quei momenti: «Ero appena arrivata a Toronto per presentare il film quando ci raggiunse quella incredibile notizia. Fu uno shock, mio marito e mio figlio erano a New York, non riuscivo a mettermi in contatto con loro. Sono tornata a casa solo una settimana dopo. Quella tragedia ha minato la peculiarità di una metropoli nella quale fino a quel momento nessuno era considerato uno straniero». E a proposito dell’accoglienza del film negli Usa dichiara: «Non c’è solo un’America, ma 300 milioni di americani che sono stanchi della guerra e hanno voglia di apertura, conoscenza. Bush diceva: o con noi o contro di noi. Noi non la pensiamo così. Al tempo stesso il vero Pakistan, che nessuno conosce, non è un corrotto covo di terroristi, ma un luogo bello e raffinato, popolato di persone che sono contro quella radicalizzazione che nasce dall’ignoranza l’uno dell’altro. Togliamo allora le etichette di musulmano, americano, pakistano. Mostriamo l’umanità abbattiamo le barriere, liberiamoci della miopia che affligge il mondo e andiamo oltre lo stereotipo. Mi auguro che in America guardino il film con amore perché siamo davvero tutti uguali».