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Classici. Irène Némirovsky, lettere dal Novecento

Roberto Righetto martedì 10 maggio 2022

La scrittrice Irène Némirovsky

Sgomento e incredulità trapelano nelle ultime lettere di Irène Némirovsky. L’incubo della deportazione si avvera il 13 luglio 1942, quando viene arrestata a Issyl’Eveque, dove si era ritirata con la famiglia. Scrive al marito Michel Epstein, alle cinque del mattino: «Mio caro amore, per il momento sono alla gendarmeria, dove ho mangiato ribes e more in attesa che qualcuno venga a prendermi. Tu cerca di stare calmo. Sono convinta che non ci vorrà molto. Ho pensato che potremmo contattare anche Caillaux e padre Dimnet. Che ne pensi? Copro di baci le mie amatissime figlie. Che la mia Denise sia ragionevole e saggia. La tengo nel mio cuore così come Babet. Che il buon Dio vi protegga. Io mi sento calma e forte. Se puoi mandarmi qualcosa, credo che il secondo paio di occhiali sia rimasto nell’altra valigia (nel portafoglio). Libri per favore! Se possibile anche un po’ di burro salato! Arrivederci amore mio». Viene trasferita al campo d’internamento di Pitiviers e due giorni dopo invia al marito un’altra breve lettera: «Amore mio, Non angosciarti per me. Sono arrivata. C’è un gran disordine ma il cibo è buono. Sono rimasta abbastanza sorpresa. Posso ricevere un pacco e una lettera una volta al mese. Soprattutto, non preoccuparti. Tutto si sistemerà, mio caro amato. Ti abbraccio così come le nostre bimbe con tutto il mio cuore, con tutto il mio amore. Irène». Infine, l’ultimo messaggio, inviato il 16 mattina: «Amore mio, mie piccole adorate, credo che partiremo oggi. Coraggio e speranza. Siete nel mio cuore, miei cari. Che Dio ci aiuti tutti». Il giorno dopo salirà sul treno verso Auschwitz, dove troverà la morte il 7 agosto per tifo. Il marito in quei giorni muove mari e monti per farla liberare: telefona, manda telegrammi, scrive lettere ad amici e conoscenti, all’editore Albin Michel ma anche all’ambasciatore tedesco, alla moglie dello scrittore collaborazionista Paul Morand, alla Croce Rossa, ma invano. Il 9 agosto viene a sapere «da fonte certa» che la moglie è stata trasportata «verso l’Est, Polonia o Russia probabilmente». Impossibilitato a fare nulla, senza più altre notizie e vinto dalla disperazione, affida le due figlie di 13 e 5 anni all’istitutrice Julie Dumot e si fa arrestare a sua volta, il 9 ottobre, nella speranza di ricongiungersi con Irène. Un mese dopo, sarà condotto da Drancy ad Auschwitz, dove verrà immediatamente portato alla camera a gas. Nella sua ultima lettera inviata a Norbert Brustis, un membro della Resistenza che si era offerto di portare in salvo lui e le bambine, si legge: «Parto per una destinazione ignota (…) Sto bene, morale eccellente. Forse vedrò presto Irène. In ogni modo, la nostra separazione non sarà lunga». Ben altra sorte spetterà per fortuna a Denise ed Elisabeth, pri- ma nascoste nella cantina della casa dei cugini della loro governante e poi in un pensionato cattolico di Bordeaux, portando con sé una valigia piena di manoscritti della madre, fra cui Suite francese, l’opera dedicata allo sbandamento della popolazione d’Oltralpe all’arrivo dei nazisti che sarebbe stata pubblicata solo nel 2004. Dopo l’armistizio, faranno ritorno a Parigi e verranno affidate alle suore di Notre-Dame di Sion. Invano busseranno alla casa della nonna materna per chiedere aiuto: ella le respingerà dicendo loro di rivolgersi a un orfanotrofio. Ancora, invano andranno tutti i giorni alla Gare de l’Est, dove arrivavano i sopravvissuti ai lager, o all’hotel Lutetia, che accoglieva i deportati, con un cartello che portava scritto i loro nomi. Solo molto più tardi seppero la verità circa la fine dei genitori. La nota vicenda della scrittrice, nata nel 1903 nell’oggi martoriata Kiev, si arricchisce di particolari inediti grazie all’epistolario appena uscito in Francia, Lettres d’une vie (Editions Denoel, pagine 542, euro 22,00), magistralmente curati da Olivier Philipponat. Un corposo volume che si divide in tre parti: fino al 1924 la vita spensierata a Parigi fra studio – frequentava la Sorbona –, balli e flirt; il successo letterario avvenuto dopo il matrimonio e soprattutto dopo la pubblicazione di David Golder, quando aveva solo 26 anni, un periodo che dura sino al 1939, allorché scoppia la Seconda guerra mondiale; infine, gli anni della persecuzione in quanto ebrea apolide, fino alla tragica fine. Le lettere di questa fase sono le più numerose. È il momento più drammatico della vita di Irène e Michel, che viene licenziato dalla banca in cui lavora in quanto ebreo. La famiglia fatica a racimolare il denaro per vivere ed è grazie alla benevolenza dell’editore Albin Michel – il quale dopo la guerra diverrà tutore delle due bambine –, che garantisce alla Némirovsky un sostentamento mensile, che riesce ad andare avanti. In quegli ultimi mesi Irène fa i conti col proprio destino di ebrea (nonostante fosse divenuta cristiana nel 1939, assieme alle bambine), dopo essersi a lungo illusa. Ma né la sua domanda di naturalizzazione, mai arrivata a buon fine, né il certificato di battesimo le serviranno, tantomeno le ripetute prese di distanza dai sovietici nei suoi romanzi e racconti. Quasi fino alla fine ebbe fiducia – a parte gli ultimi mesi, come si desume da Suite francese– nel popolo e nella nazione che l’avevano accolta in fuga dalla Russia bolscevica, e non seguì il consiglio degli amici che l’invitavano a fuggire in Svizzera. Nella parte del libro che concerne la celebrità e i contatti sempre più frequenti con il mondo letterario francese, va sottolineata la stima da parte del filosofo cattolico Gabriel Marcel, manifestata in vari articoli ai quali fanno seguito le sue lettere di ringraziamento; la conoscenza con lo scrittore Paul Morand, ambiguo sostenitore del regime di Vichy, che nel Diario di guerrauscito postumo nel 2020 peraltro riserva – commenta Philipponat – parole di irrisione agli sforzi del marito e del suo editore di intercedere con Pétain e Laval per salvarle la vita; le sue considerazioni sulla scrittura e le preferenze letterarie che vanno da Racine (più di Corneille) a Mauriac, di cui ha apprezzato in particolare Groviglio di vipere. Al termine dell’epistolario viene presentata una raccolta di dichiarazioni di Irène Némirovsky prese da varie interviste, e non può non colpire la sua risposta alla domanda “Che ne pensa della Francia e della Germania?”, rilasciata a “La Liberté” nel 1940. Eccola: «Abito in Francia da vent’anni. Le mie bimbe sono francesi e i miei migliori ricordi sono legati a questo paese. Naturalmente l’amo profondamente e l’ammiro perché è un paese libero. Non conosco la Germania che dai suoi frutti: rapina, crudeltà, tirannia. Se ci sono altre cose, non lo so. Quello che si può vedere oggi ispira solo orrore».