Agorà

80 anni di Tiberio Murgia . «Io, unico sopravvissuto della gang dei soliti ignoti»

mercoledì 4 febbraio 2009
Sa di essere l’ultimo sopravvissuto della banda dei Soliti Ignoti, il film cult della commedia all’italiana, fir­mato nel lontano 1958 da Mario Moni­celli, il leggendario Ferribotte, alias Tibe­rio Murgia classe 1929 ma si sente di trac­ciare un bilancio positivo della sua vita: lui sardo purosangue, per generazioni di italiani, ha vestito i panni del siciliano ge­losissimo e possessivo. Domani taglierà il traguardo fatidico degli ottant’anni di vi­ta. Dalla sua abitazione nel quartiere Baldui­na di Roma tornano in mente i ricordi, i volti che hanno costellato la sua esisten­za di attore e di caratterista. «Mi sembra di rivederli tutti accanto a me – ricorda commosso – sul set: Salvatori, Mastroian­ni, Gassman o il mitico Capannelle a ru­barsi la scena come se fossero dei bambi­ni ». Non dimentica, nel suo album dei ricor­di, Leopoldo Trieste, De Sica e Peter Sel­lers, ma anche l’affetto e l’ironia di Moni­ca Vitti «con cui ho recitato nella Ragazza con la pistola » e non da ultimo Alberto Sordi, suo compagno di scena ne La Gran­de Guerra. «Quel film per la fatica delle scene è stato come fare il militare per dav­vero…. ». Venditore ambulante a Orista­no, poi minatore a Marcinelle («riuscii a salvarmi dalla strage del centro minerario per un puro caso») all’arrivo a Roma do­ve intraprende vari mestieri, dal manova­le al lavapiatti in un ristorante, all’incon­tro con Mario Monicelli, che gli cambiò la vita. «Lavoravo in un ristorante vicino a Piazza di Spagna che esiste ancora Il Re degli amici – rivela Murgia –. Appena mi vide Monicelli ebbe una cotta improvvisa per me. Credo che gli siano piaciuti subi­to il mio modo di camminare. Quell’in­contro mi cambiò la vita e a Monicelli de­vo quello che sono diventato». Quando è stato il suo ultimo incontro con Monicelli? Pochi mesi fa ci siamo incontrati, per ca­so, a Piazza di Spagna. Abbiamo festeg­giato assieme il mio esordio sul set. È sta­to l’incontro e l’abbraccio amoroso tra un padre e un figlio. Ha sempre voluto da me l’immagine del siciliano orgoglioso: «Ti­berio ti voglio altero». I suoi insegnamen­ti sono stati per me una scuola di vita. Lei fu esordiente nel 1957 con Claudia Cardinale. Eravamo i due principianti del set. Io par­lavo in sardo e lei in francese. Ricordo che la dovevo proteggere dagli altri divi, come Renato Salvatori. Lei era timidissima e bel­lissima e terrorizzata da tutto e un po’ co­me succede nel film la proteggevo dagli altri. Io ero pur sempre il «fratello di Cam­mellina». E di Gassmann e Mastroianni? Dei veri signori nella vita come sulla sce­na. Ricordo ancora quando nelle pause dal set preparavo le sigarette, 'il trinciato forte' per loro due. Ci siamo rivisti sulla scena per il remake dei soliti ignoti di To­dini. Fu bello lavorare assieme, anche se il film fu un fiasco. Com’era Totò? Un vero principe, uno che non si dava a­rie. Alla mattina se non stringeva la mano a tutti, non era contento. Lui quasi cieco mi cercava sul set e mi riconosceva al tat­to della mano e diceva: «Questo è Ferri­botte ». Meno idilliaci furono i suoi rapporti con Franco e Ciccio. Ho lavorato con loro in alcuni film. Non fu un rapporto facile perché io natural­mente era nato prima di loro. Io facevo il siciliano e questo ovviamente li irritava. Monicelli mi ha imposto nei copioni. Il mio ruolo di siciliano era un po’ il con­traltare ironico di quello che interpreta­vano loro due, che erano siciliani per dav­vero. Cosa le manca di quegli anni? Mi manca l’età, il sorriso, la fantasia. Po­trei ancora dare alla gente l’abbraccio di un attore che ha fatto divertire, con le sue gag generazioni di italiani. Pensi che coi Soliti Ignoti sono divenuto famoso persi­no in Giappone… Manca anche a noi an­ziani il set ma forse quello che manca di più è la poesia e leggerezza di quella sta­gione cinematografica.