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VENEZIA. «Noi esuli alla ricerca del padre»

Pierachille Dolfini venerdì 2 agosto 2013
Harwan è in un museo. Davanti agli occhi Il figliol prodigo di Rembrandt. E lui, libanese costretto all’esilio in Canada, davanti all’abbraccio del Padre misericordioso si vede costretto a riflettere sulle sue radici, sul significato di memoria e identità. Una storia, quella raccontata da Wajdi Mouawad in Seuls, dove non distingui più i confini tra finzione e realtà. Perché quella che l’attore, regista e drammaturgo libanese porta in scena domani alla Biennale teatro di Venezia è la sua storia. «Bisogna sentirsi soli per scrivere – racconta Mouawad –. Il gesto della scrittura esiste come prolungamento dei dolori invisibili, dolori non solamente fisici ma soprattutto politici e storici».Quanto, Mouawad la sua storia personale entra nel suo teatro? In «Seuls» è evidente, ma come riesce a far diventare una vicenda privata spunto di riflessione per un pubblico che ha storie e provenienze diverse?Quando la sensibilità dell’artista si sintonizza su un’immagine il suo spirito non ha immediatamente coscienza di questo contatto: mi capita di realizzare quanto un evento sia stato per me scioccante solo anni più tardi. E questo tempo consente di percepire la profondità di qualcosa che poteva sembrare banale. È a quel punto che cerco di farne uno spettacolo: parto da una frase, da un’immagine fugace, cerco di portarle allo sguardo del pubblico facendo scoprire allo spettatore che gli è possibile avere quella stessa sensibilità, un nuovo modo di guardare. Nel suo lavoro il tema dell’esilio e delle radici torna spesso: come rimanere fedeli alle proprie origini pur essendo sradicati dalla propria terra?L’esilio non è soltanto disgrazia e maledizione. È anche apertura, possibilità di moltiplicare punti di vista. Quando veniamo strappati dalla nostra terra veniamo strappati dalle nostre profezie, dai legami di sangue, dalla nostra genealogia: l’esilio obbliga ad affermarsi attraverso promesse fatte a persone che sono diverse da noi, che non sono parte della nostra stirpe. Mantenere la promessa di non sottoporsi mai alla legge della violenza consente di reinventare il sentimento dell’appartenenza.In «Seuls» il protagonista riflette sulla sua vita osservando l’icona del Figliol prodigo. Chi è, oggi, il Padre misericordioso? L’arte può essere il luogo del ritorno, dell’abbraccio che riconcilia e offre perdono?La società contemporanea è diventata il figlio. Le politiche liberali sono esattamente lo specchio del figlio che reclama la sua parte di eredità e poi va a dilapidarla. Non c’è più il padre, è stato bruciato nei forni crematori. Dai campi di sterminio e da quello che una parte dell’umanità ha fatto all’altra non c’è più il padre: i figli cercano invano. C’è un lutto che dobbiamo lasciare in eredità alle generazioni future: ci resta qualche parola, qualche frase da donare loro in più.È in questo spazio, allora, che trova la ragione del suo essere artista?Sono diventato un artista non perché ho conosciuto la guerra e l’esilio, ma perché ho visto delle opere d’arte e ne sono rimasto sconvolto. L’arte chiama l’arte. La guerra e l’esilio chiamano la disgrazia e la collera. Ho scritto perché ho letto, ho fatto teatro perché ho visto il teatro e questo teatro l’ho realizzato con quello che avevo a portata di mano : la famiglia e l’esilio. Sono i miei attrezzi del mestiere e non la ragione del mio legame con l’arte. Il suo Paese, il Libano, continua ad essere in una situazione delicata: quale la via per la pace?Non bisogna disperare. Nonostante i morti e il sangue occorre continuare a lavorare creando occasioni di incontro. Ma in Libano non si gioca tutto su un piano ideologico o religioso: la mia è una regione in cui l’acqua, per esempio, porta i nemici a mettersi d’accordo per la sopravvivenza comune. Ecco perché la pace è la sola soluzione percorribile: occorrerà ancora del tempo e alla fine basterà un niente perché tutto si calmi. Ma questo niente può essere la cosa più difficile e dolorosa da fare per i politici di oggi.Fece scalpore, nel 2005, la sua scelta di rifiutare, in polemica con lo stato di salute del teatro, il premio Molière: oggi qualcosa è cambiato, se glielo riassegnassero lo ritirerebbe?No, ci sono delle buffonate che non posso sopportare. Trovo ignobile un sistema che mette in competizione degli artisti in un’arte che non è un’industria, ma un’arte artigianale, che vive nel dibattito e nello scambio continuo.