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INTERVISTA. Danilo Sacco: «La mia voce per il carcere»

Andrea Pedrinelli sabato 13 aprile 2013
Danilo Sacco definisce la sua ripartenza dopo l’addio ai Nomadi «un’esplosione di creatività», ma forse c’è di più, e di meglio, nel suo agire da cantautore ed interprete solista. Perché non ci sono solo il disco Un altro me, il libro-biografia-romanzo Come polvere nel vento e la tournée che domani per la prima volta lo porta da solista a Milano (al Legend Club), nella sua "nuova" carriera. C’è anche, anzi soprattutto, «la consapevolezza che la fortuna di avere un pubblico mi obbliga a testimoniare quanto vedo, a far conoscere cose che devono essere conosciute, e ad agire, nel mio piccolo, per gli altri». Infatti Sacco ha appena lanciato il clip Cane legato alle morti sul lavoro, è reduce da incontri sulle malattie causate dall’uso dell’amianto (tema della sua canzone Un altro me), e lo incontriamo il giorno dopo quella che definisce «una fortuna». Cioè aver cantato per (e con) i detenuti della casa di reclusione di Castelfranco Emilia.Sacco, che cosa le ha dato entrare in un carcere?Sono occasioni di grande valore per crescere. Devi conoscerle, certe situazioni. Sia perché chiunque può sbagliare, sia perché il carcere non va inteso come una parentesi della società, ma come parte di essa. Ci sono persone, lì. E portar loro musica li ha fatti sentire considerati da qualcuno. Abbiamo fatto anche un po’ di karaoke insieme… Alla fine siamo stati noi, i "normali", a ringraziare loro. E personalmente è tramite queste esperienze che mi convinco del senso vero del fare musica. Almeno per me.Si rafforza la responsabilità di scrivere cose serie?Eccome. Perché parlare sempre e solo di amori finiti o sentimentalismi, di fronte alle esigenze vere della gente? Chi ha un microfono in mano, e la fortuna di essere più ascoltato anche dei politici, ha il dovere di dire altro. Di testimoniare. Anche perché in fondo questo siamo, noi cantanti pop-rock. Mozart era un artista, noi no, al più siamo artigiani: costruiamo cose vive, dunque, non canzoni di plastica.Si incontrano ostacoli, cantando la vita vera?A me non è accaduto. Anzi, vedo che la gente ne ha bisogno. E comunque anche se mi accadesse di venire censurato andrei avanti, alla mia età non ha senso avere paura. L’importante è non fare i moralisti, non credersi maestri di vita. Basta cantare quanto c’è intorno, senza inventarsi fantasie.Magari anche con un po’ di narcisismo. O non fa piacere essere quelli "impegnati"?Altro che. Non nascondiamocelo. Però sa, io ho cambiato rotta dopo un concerto col gruppo davanti a 30mila persone. Ti senti un semidio. Solo che poi torni in albergo, e non trovi nessuno. E fare musica così non aveva senso. Ciò che conta sono la famiglia, i valori. La musica viene dopo, e quella sera ho capito che va vissuta in un modo diverso.Come nel clip di "Cane", dove lei aggiunge alle parole sulle morti sul lavoro immagini contro una società dell’apparire, incentrata su soldi e sesso?Sì, io ci provo pure così. Cerco di dire più cose che posso, di stimolare ascolti diversi del rock. Cantando dell’amianto ho avuto pure l’onore di essere invitato a convegni sul tema in Toscana: io vivo a pochi chilometri da Casale dove hanno messo fuori produzione l’amianto blu, letale, solo negli anni ’90. È bello sapere che cantandolo sensibilizzo. Spero solo di poterlo fare, prima o poi, anche lì.Insomma, da solista la vita d’artista è diversa?Per me sì. Pensi che oggi nei concerti non faccio sempre i miei pezzi, e per rispetto dei Nomadi non faccio mai cose mie incise con loro. Omaggio invece Bertoli, Ivan Graziani, Endrigo, Brassens, Gaber… Anche nella musica, sento il dovere di far conoscere cose che meritano, di testimoniare un patrimonio.