Agorà

Katherine Larson. «Noi scienziati abbiamo bisogno di poesia»

Alessandro Zaccuri giovedì 1 dicembre 2016

La biologa molecolare e poetessa Katherine Larson

Quando sente nominare Charles Snow, lo studioso che negli anni Sessanta denunciò la separazione tra le “due culture”, la statunitense Katherine Larson sorride e scuote la testa con gentilezza. «Non saprei – dice –, a me non è mai capitato di considerare scienza e letteratura come realtà inconciliabili. Del resto, anche Snow era un buon narratore, oltre che un fisico». La conferma viene dalle scelta di poesie della stessa Larson che Interlinea ha pubblicato con il titolo Le storie più mute (a cura di Pietro Federico e con una nota di Bryan Giemza, testo inglese a fronte, pagine 128, euro 12,00) in occasione del conferimento all’autrice del premio “Poesia civile – Città di Vercelli”. «Una volta credevo che la scienza si occupasse / solo di certezza. Più tardi ne ho riconosciuto il mistero. / Non esiste un linguaggio per questo, – /per il modo in cui ti vedo quando splendi», si legge in Mimesi e mimica, che costituisce una sorta di manifesto del-l’attività di Katherine Larson, biologa molecolare e insieme poetessa. Anzi, poetessa in quanto biologa molecolare. «Sì, è proprio così – ammette –. Nonostante quello che si pensa di solito, arte e scienza hanno tanto in comune».

Che cosa esattamente?

«Direi anzitutto la curiosità, che induce a porsi domande, a indagare i segreti del- l’essere e dell’esistenza. La poesia, in particolare, non è soltanto un mezzo di espressione, ma una forma di conoscenza dotata di piena dignità, capace di suscitare inquietudine e impegno. Se torniamo alle origini della nostra civiltà, tra l’antica Grecia e il Medioevo, ci accorgiamo che questa unità profonda era accettata e praticata».

Oggi però la situazione è diversa.

«La scienza, in questo momento, si struttura per specializzazioni sempre più raffinate e, da ultimo, esclusive. Avere uno sguardo d’insieme diventa difficile e spesso gli scienziati stessi faticano a intendersi l’uno con l’altro al di fuori degli specifici ambiti di competenza. Il dialogo con altre discipline, in condizioni simili, è davvero complicato».

Anche la poesia è sempre più specialistica?

«In un certo senso sì. Penso alla tendenza, abbastanza diffusa tra gli autori di lingua inglese, a rinchiudersi in una dimensione sperimentale, con un linguaggio tanto elaborato quanto ostico da decifrare. In alternativa, molti si concentrano su un autobiografismo volutamente ironico e allusivo, che risulta ermetico su un altro fronte».

La sua, invece, è una poesia molto trasparente.

«Lo considero un complimento. Uno dei miei modelli è da sempre Jules Supervielle, che riusciva a racchiudere concetti di estrema complessità in versi dall’apparenza semplicissima. In quanto forma di conoscenza, la poesia si basa sull’esperienza e sulla condivisione di questa stessa esperienza con gli altri».

Quando ha cominciato a scrivere?

«Molto presto, da bambina. Entrambi i miei genitori erano insegnanti, in casa nostra c’erano libri dappertutto, ma il mio preferito era il dizionario, nel quale andavo a cercare il significato esatto di ogni singola parola. Era un atteggiamento da scienziata, in qualche modo. Per me provare a scrivere qualcosa è stato un fatto del tutto naturale. Sono stata fortunata, anche in questo. Più tardi, grazie al mio lavoro, ho potuto viaggiare in tanti Paesi, dall’Africa all’America Latina. È stato un arricchimento continuo, che mi ha dato l’opportunità non solo di entrare in contatto con lingue e culture differenti dalla mia, ma anche di vivere, spesso a lungo, in luoghi che altrimenti non avrei potuto conoscere con questa intensità. Ogni volta ho tentato di condividere la mentalità delle persone del posto, riportando quelle sensazioni nei miei versi».

Il sentimento della meraviglia è un altro punto di contatto fra poesia e scienza?

«Certamente. Penso spesso alle intuizioni di Gaston Bachelard, che già un secolo fa aveva insistito sull’interconnessione fra l’immensità dell’universo e le scoperte che si stavano susseguendo nel campo dell’infinitamente piccolo. Macrocosmo e microcosmo sono concetti più attuali che mai, e sempre più convergenti. Dall’astrofisica alle neuroscienze, le occasioni di meraviglia derivanti dalla ricerca si stanno moltiplicando. Ogni volta che il confine delle nostre conoscenze, o della nostra ignoranza, si sposta un po’ più in là, la prima reazione è di stupore. E di riconoscenza».

Ma questo non dovrebbe portare a un dialogo più serrato con le discipline umanistiche?

«Si tratta di un obiettivo da perseguire con convinzione, a partire dai programmi scolastici. Il modello di sapere proposto delle istituzioni è fondamentale per la formazione degli scienziati e degli artisti di domani. Occorre tornare alla consapevolezza del fatto che possiamo imparare molto gli uni dagli altri e che, nello stesso tempo, il mondo in cui viviamo ha bisogno di una visione più ampia e più libera, meno specialistica di quella di cui disponiamo. I segnali positivi non mancano. Molti, tra gli scienziati più giovani, stanno riscoprendo l’urgenza dell’impegno civile, così come gli scrittori delle nuove generazioni dimostrano un forte interesse per quanto accade in campo scientifico. Il mistero riguarda ciascuno di noi. Sono convinta che finiremo per accorgercene».