Agorà

Le prediche di Spoleto/3. Tarquinio: in ascolto, rubando il mestiere a Dio

Marco Tarquinio venerdì 1 luglio 2016
Mi è stato affidato un testo evangelico – la parabola del giudice disonesto e della vedova importuna (Luca 18,1-8) – che porta a riflettere sulla parola che si fa preghiera e sull’appuntamento che abbiamo con Cristo, Parola creatrice e definitiva che ha dato, dà e darà senso al nostro stare al mondo. A questo testo mi sono affidato anch’io, ritrovandomi a ragionare sia sull’attesa della giustizia, sia sulla premessa della giustizia, sia su ciò che unisce le due cose: l’ascolto che incontra l’umana volontà di “farci ascoltare” nella nostra necessità, nel nostro dolore, nella nostra ricerca. E nella nostra gioia, aggiungerebbe papa Francesco.  Pregare è certamente rivolgersi a Dio. È fidarsi dell’ascolto del Giudice che «farà giustizia prontamente» e la farà a noi, che – in questa parabola – possiamo anche rischiosamente riconoscerci nei panni degli «eletti », ma che più realisticamente ci ritroviamo nella condizione della «vedova» che cerca giustizia a causa di un duro «avversario». Siamo, cioè, persone che sono state amate una volta per tutte eppure continuano a perdere l’amore e a sperimentare la fragilità dell’incomprensione, della separazione e dello strappo. E lo sperimentano nella propria esistenza, nell’anelito a Dio, nella relazione con gli altri, nel rapporto con i custodi delle norme. Personaggi importanti, questi ultimi, in tutte le società e in tutte le religioni. Nel testo di Luca sono rappresentati – con un’immagine davvero senza tempo – nella figura del «giudice disonesto», cioè dell’uomo del potere  e delle regole, ma pieno di sé, indolente, indifferente alla verità e alle ferite delle vite degli altri. Uno che si risolve a fare il proprio dovere, e a riconoscere il vero bene da tutelare, solo perché viene incalzato in maniera assillante e addirittura allarmante.  Tuttavia una giustizia più alta, e certa, c’è. E Dio – dice Gesù – non farà «a lungo aspettare». È un annuncio che consola e scalda il cuore. Eppure, poche sillabe dopo, questa straordinaria parola di luce viene trafitta d’ombra dalla domanda che suggella la parabola e la lascia per sempre aperta nella nostra memoria e nelle nostre smemoratezze: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?». L’interrogativo è come una lancia nel costato. Che ci accosta a Cristo, proprio mentre Lui ci chiede della nostra reale distanza da Dio e dalla vera giustizia, proprio mentre intuiamo che la vera giustizia è l’anima di quell’interrogativo: la fede, letteralmente la “funicella”, la “corda” con la quale, appunto, ci “accordiamo” a Dio e all’umanità e a tutto ciò che vive e splende nella nostra casa comune, è il fondamento che precede la legge e i suoi riti, che anticipa il grido del povero e lo corrisponde, che interpella direttamente tutti i crocifissi e i carnefici e gli spettatori e i giudicanti disonesti e onesti di questo mondo.  Questa domanda la sento rivolta a me, così come sono. Sento che mi chiede conto della vita che faccio e del mio mestiere, che – come ogni lavoro – può farsi preghiera e via verso la giustizia, oppure no. Questo Vangelo mi porta a ragionare sul fatto che il mio mestiere, che somiglia a quello del giudice, ha ancora e sempre senso se non si riduce al “farsi ascoltare” in una predica scandita da un’esile cattedra di carta. Ed è utile e persino prezioso se trova forza e profondità in un capovolgimento necessario, e che non dovrebbe riguardare solo noi giornalisti, ovvero nell’attitudine esattamente opposta a quel presuntuoso e magari autoreferenziale “farsi ascoltare”, ovvero nello “stare in ascolto” e nel “dare ascolto”. In fondo, si tratta di non dimenticare che il giornalismo ha le stesse regole del mestiere di vivere di ciascuno di noi, e può aiutare tutti a essere uomini e donne più giusti.  San Giovanni della Croce ha saputo dirlo in modo fulmineo e indimenticabile, e lo ha detto a tutti: credenti e non credenti: alla sera della vita, «saremo giudicati sull’amore», sulla verità dell’amore che abbiamo saputo vivere. E alla sera (o all’ultima e definitiva alba) dei tempi, il metro che misurerà le nostre esistenze sarà ancora e sempre l’amore, l’amore che si è fatto atto di giustizia, cioè reale riconoscimento del Giusto che continua a incrociare il nostro cammino, e che ci «importuna» – come suggerisce questo capitolo del Vangelo di Luca e come grida il capitolo 25 del Vangelo di Matteo. Ci «importuna» in povertà, in debolezza e in umano torto: quasi sempre dai margini della “vita civile”, spesso fuori da regole e parametri, qualche volta avendo deliberatamente rotto – o semplicemente e disperatamente ignorato – il rassicurante schema costruito dai dottori della legge. «Ho avuto fame, ho avuto sete, ero forestiero, ero nudo, ero malato, ero carcerato…». Il Figlio dell’uomo continua a tornare nella città dell’uomo. E proprio in me, in noi, continua a cercare l’amore che ha insegnato, a saggiare la fede di cui siamo capaci. La fede su cui Gesù si interroga e ci interroga è la fede che «senza le opere è morta » e che non è soltanto affare da cristiani battezzati e praticanti, ma da uomini e donne che se imparano poco a poco ad ascoltare, a riconoscere, a condividere, a rispettare e ad amare, non si rassegnano più al disamore e all’ingiustizia. E io penso che faccia un tremendo errore chiunque, cristiano o no, consideri la domanda di Cristo e il compito di umanizzare e completare di bene il mondo qualcosa di utopico, di illusorio e irrilevante. Eppure registro da cronista che l’errore di una così decisiva inti, si perpetua, me ne rendo conto proprio attraverso il lavoro che faccio, raccontando le persone che il mondo lo abitano, lo fanno migliore o, come vertiginosamente scrive Giuseppe Ungaretti, «d’abissale pena» lo soffocano. C’è un antidoto. Rendersi conto che a pregare con più forza e a riempire di verità anche la nostra preghiera sono soprattutto loro, i perseguitati, gli scacciati, quelli che vengono segnati col marchio della diversità (non riesco a togliermi dalla mente la stella di David degli ebrei sotto Hitler, e la “N” di “nazara” dei cristiani sotto il califfo nero di Raqqa). Sono specialmente loro la “vedova importuna” della parabola: donne e uomini che letteralmente alzano la voce e «giorno e notte» gridano al Cielo. Sono loro – martiri, sfrutta-comprensione rifiutati – i nostri maestri di preghiera, la nostra coscienza inquieta, il nostro debito di umanità e di giustizia.  Noi possiamo fingere di non sentire o possiamo, invece, provare a “rubare il mestiere a Dio”. Cioè prestare ascolto a ciò che non ci riguarda secondo la logica del mondo. Prenderci a cuore ciò che non ha e non dà interesse. Farci persino travolgere da ciò che non dovrebbe neanche sfiorarci secondo il galateo della normalità, della tranquillità e della (apparente) salvezza individuale. Un galateo perfetto e disonesto che finisce per coincidere – la parabola del Vangelo di Luca è chiara – con la più egoistica «mancanza di rispetto» verso Dio e verso gli uomini. Ma se cominciamo ad ascoltare, non riusciamo più a fermarci. Rendiamo inquieti i nostri giorni, impariamo a scavare persino dentro la quotidianità, dentro le spese che facciamo, i divertimenti che cerchiamo e il lavoro che svolgiamo, imponendoci di ragionare non tanto su ciò che garantiscono a noi, ma sull’“effetto che fanno” al mondo e alle tante altre persone che, con tutta la nostra “cultura dei diritti”, non riusciamo a pensare uguali a noi. Se prendiamo sul serio la preghiera di coloro che chiedono misericordia e che credono anche per noi, non avremo più tregua né la daremo, vedremo nella sua insopportabile verità l’inutile e falsa pace che si fonda sulle guerre e sulle tribolazioni altrui. E capiremo qual è la strada per il paradiso. Che non si fa da sola e non si fa da soli.  Bisogna andare almeno «a due a due» per arrivare alla mèta, come aveva ben capito Paul Éluard. Ma anche qui, una volta di più, è la parola di Gesù a risultare illuminante: «Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà…» (Mt18,19). Il nostro Dio non ama la solitudine. L’ascolto è un altro nome dell’amore. E l’ascolto reciproco che “rubiamo” a Dio è, ai Suoi occhi, giusto guadagno. Nessuno cammina da solo, nessuno prega efficacemente da solo, nessuno si salva da solo. Il Figlio dell’uomo, qui e ora, domani e sempre, ce lo rammenta tornando a «importunarci ». La fede di cui ci è chiesto conto, la fede che riannoda secondo giustizia i fili della vita sulla Terra e che lega al Cielo, è incontro e ascolto. Puro e vero ascolto. Ascolto di Dio. Nostro reciproco ascolto.