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Fotografia. A Venezia il volo di Jaques Henri Lartigue oltre il tempo

Alessandro Beltrami mercoledì 12 agosto 2020

Jacques Henri Lartigue, “La Baule, 1979”

Inviato a Venezia «Il mondo è un immenso parco» diceva Jacques Henri Lartigue (1894-1986), il fotografo francese noto soprattutto per le sue foto della Belle Époque, “scoperto” solo all’inizio degli anni ’60 grazie a una mostra organizzata in modo quasi fortuito dal MoMA e poi grazie a Richard Avedon che, attraverso l’invito a riorganizzare e riscrivere il suo “giornale” fotografico, lo porterà a pubblicare nel 1970 Diary of a Century. Il volume lo lancia tra i grandi della fotografia ma ne schiaccia in qualche modo la percezione. La vasta retrospettiva, dal bel titolo “L’invenzione della felicità”, che gli dedica la veneziana Casa dei Tre Oci (fino al 10 gennaio), a cura di Marion Perceval, Charles-Antoine Revol e Denis Curti, intende allargare lo sguardo attraverso una selezione di 150 immagini, di cui 55 inedite, oltre a album, lettere e schizzi.

Sono infatti numerosi generi attraversati da Lartigue, sempre però con spirito immutato. A rendere unico il suo corpus è l’imprinting dato dall’incontro con la macchina fotografica a 7 anni. Figlio della ricca borghesia parigina, Lartigue fa presto della fotografia un gioco molto serio e lo spirito ludico resterà la sua cifra. Si tratta di un ludus autentico perché nella natura festiva e nella dettagliata regia troviamo tutte le scansioni dei ludi antichi: atletico, circense, gladiatorio e scenico. Il suo è un mondo che non smette di giocare, anche quando fuori infuria la storia. L’automobile, una costante, è il sogno della massima velocità dei bambini. I suoi bolidi piegano lo spazio come Nuvolari nelle iperboli di Roversi e Dalla.

La parola chiave di Lartigue è leggerezza, nel senso calviniano. La ritroviamo anche quando si occupa di moda, set cinematografici, reportage. La legge dell’occhio è innocenza e meraviglia. C’è nelle fotografie giovanili di Lartigue un elemento circense, quasi slapstick, che, pur rimodulato, non lo abbandonerà mai (clownesca è ad esempio anche l’immagine della moglie Bibi in bagno).

Il circo è uno dei luoghi cardine della Belle Époque, tempo in cui la società era spettacolo. Ma più in particolare il circo è il luogo dell’abilità, della leggerezza, dello slancio. Nelle Odes funambulesques (1857) Théodore de Banville trasforma la parabola di un acrobata in una retta verso l’infinito: «Alfine dal suo abietto palcoscenico, / il clown saltò su in alto, così in alto! / Sfondò perfino il soffitto di tela / Al rullar del tamburo, al suon del corno / E, il cuore divorato dall’amore, / Andò a fare capriole fra le stelle». È un clown il cugino André Haguet risucchiato verso l’alto appeso a un bastone, immagine allo stesso tempo ironica e sincera di una ascensione o di un rapimento al cielo. L’opera di Lartigue è percorsa da immagini in apparenza di salti, in realtà di voli: dalla cugina Bichonnade che si libra sulle scale del giardino al fratello che si stacca da un muro al conte von Salm-Hoogstraeten sospeso sulla terra rossa nella finale dei Mondiali di tennis del 1914 fino al volteggio di La Baule, immagine guida della mostra, del 1979.

Ha ragione Ferdinando Scianna quando in catalogo (Marsilio) scrive che «la fotografia è stata per lui lo strumento meraviglioso per tentare una grande sfida al tempo e alla morte». Lartigue cerca di fissare per sempre un attimo di extra-terrestrità. Le sue figure si staccano da terra per un istante eterno e così, come un ribaltato Anteo, non perire.

L’antigravità affratella i corpi di Lartigue a quelli levitanti di Chagall, ai voli di santa Rita e della Margherita di Bulgakov. È qualcosa di più di una condizione preternaturale, il brivido della libertà assoluta che, per esempio, rende elettrici i corpi in volo fotografati da Aaron Siskind negli anni ’60 nella serie Terrors and Pleasures of Levitation.

I voli di Lartigue hanno la traiettoria di quelli cosmici e metafisici del Tuffatore di Paestum e del Saut dans le vide di Yves Klein. O ancora dei tentativi di volo di Gino de Dominicis, poetico caparbio esercizio del fascino dell’impossibilità. Non è questa la sola assonanza tra l’artista italiano e Lartigue, che in una foto blocca in aria la palla lanciata dalla governante Dudu. Se una sorta di eco a distanza sono le Throwing Four Balls in the Air to Get a Square di John Baldessarri, la sua “fase due” è la Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo, parte di quella Seconda soluzione di immortalità (l’Universo è immobile) che tanto fece scalpore alla Biennale del 1969.

Certo, l’universo del fotografo francese è in apparenza tutt’altro che immobile, ma sembra valere per Lartigue quanto scrive Gabriele Guercio su De Dominicis: «In virtù del suo congenito sottrarsi a un predeterminato spazio-tempo, non solo rievoca il salto originario dalla materia alla vita e dalla vita al pensiero, ma rinnova e trasmette il desiderio di contrastare la caducità e la morte», finendo così per favorire «il dischiudersi dell’atemporale nel tempo».

L’adulto Lartigue mantiene intatta la forza sciamanica dell’infanzia, capace di riconoscere realtà che la percezione razionale non sa e non può circoscrivere. Sciamano come Peter Pan, mezzo-e-mezzo, non più uccello e non del tutto umano, per sempre vivo sul limine dove il tempo non sa più scorrere.