Agorà

Novecento. Il viaggio di Hannah Arendt nell'antisemitismo in Occidente

Giuseppe Bonvegna domenica 20 novembre 2022

Hanna Arendt nel 1975, anno della sua morte

Benedetto Croce, di cui il 20 novembre ricorre il settantesimo della morte, nel 1925 promosse il famoso Manifesto degli intellettuali antifascisti, ma la sua lotta per la libertà si arrestò alle soglie del concetto di diritto naturale, di cui egli non condivideva l’impronta (a suo dire) individualista, troppo centrata cioè sull’esaltazione dei diritti dell’individuo. Quella crociana era una posizione condivisa anche dal suo avversario politico Giovanni Gentile (che poco prima aveva pubblicato il Manifesto degli intellettuali fascisti): dunque, tra le due guerre mondiali, ci si poté contrapporre politicamente tra antifascisti e fascisti e (ciononostante) condividere una filosofia idealista per cui l’uomo era non reale, ma ideale, aveva cioè senso solo nella cornice della politica o dello Stato. Maledizione antiumana di certa politica che, dopo la Grande Guerra, oscurava le promesse rivoluzionarie di sinistra e di destra. La ripubblicazione (in nuova traduzione italiana) dello scritto di Hannah Arendt su Rosa Luxemburg aiuta a ricordare l’ipoteca che la sinistra europea pose sulle proprie promesse rivoluzionarie già nei primi decenni del Novecento ( Rosa Luxemburg, Mimesis, pagine 132, euro 10): quando cioè, nel 1919, l’intellettuale polacca di origine ebrea, leader dello Spartakusbund (precursore del partito comunista tedesco) venne fucilata a Berlino, assieme a Karl Liebknecht, sotto gli occhi (e forse con la connivenza) del governo socialdemocratico della neocostituita Repubblica di Weimar. Hannah Arendt sentiva la propria vicenda molto vicina a quella della Luxemburg, in quanto, ebrea anche lei, aveva sperimentato, a cavallo della Seconda guerra mondia-le, cosa vuol dire essere nemici degli amici a causa del proprio ebraismo sui generis.

Docente di filosofia politica a Princeton, Berkeley e Chicago (dopo essere fuggita nel 1933 dalla Germania), l’autrice della Banalità del male si era resa “colpevole”, anche agli occhi dei suoi amici ebrei, di non aver accettato la vulgata del momento tendente a ricondurre l’antisemitismo esclusivamente al nazionalsocialismo: proponendo invece, nelle Origini del Totalitarismo, una lettura che chiamava sul banco degli imputati l’intera Belle Époque europea e nord-atlantica. E, per di più, occhieggiava all’Antico regime cattolico, nel momento in cui non individuava nel cristianesimo l’origine dell’antisemitismo moderno che aveva portato ai campi di concentramento. Nel saggio del 1943 Noi rifugiati, tornato in libreria per Einaudi in nuova traduzione (pagine 100, euro 12), Arendt individuava la prova inconfutabile dell’esistenza di questo antisemitismo “allargato” nel fatto che lei stessa, dopo essersi salvata dal nazismo fuggendo dalla Germania a Parigi, venne internata in Francia in quanto “boches” (crucca): e il suo essere ebrea costituiva un’aggravante, dal momento che «a Parigi non potevamo lasciare le nostre case dopo le otto di sera, perché eravamo ebrei». Fuggita negli Usa all’indomani dell’occupazione della Francia , Hannah Arendt, già apolide in Germania e in Francia, lo fu ancora di più oltre Oceano per undici anni (ottenne la cittadinanza americana solo nel 1951): «a Los Angeles siamo stati sottoposti a restrizioni perché siamo “stranieri nemici”», nonostante si trattasse di gente in fuga dal nazismo contro cui, dal 1941, gli Stati Uniti si trovarono in guerra. Dopo il 1933 era certamente meglio vivere a Parigi o a New York che a Berlino, ma restava pur sempre vero, per Arendt, che il tarlo dell’intolleranza allignava nell’ampio ventaglio delle democrazie occidentali che andava dalla socialdemocrazia tedesca, alla Terza Repubblica Francese e alla democrazia rooseveltiana statunitense.