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HENRI BREMOND. Il talent scout del ’600

Filippo Rizzi martedì 13 agosto 2013
«Un accademico di Francia alle prese con la preghiera»: così secondo un’efficace definizione del domenicano Innocenzo Colosio. Ma anche uno studioso in grado di dare piena cittadinanza scientifica alla mistica, in particolare quella del Seicento francese, e di aprire nuovi orizzonti alla filosofia e alla psicologia della religione. Sono trascorsi ottant’anni dalla morte dello storico della spiritualità Henri Bremond ad Arthez-d’Asson, il 17 agosto 1933, ma il suo nome come la sua cifra di intellettuale e di studioso rimangono ancora attuali; a cominciare dalla sua opera monumentale, in undici volumi, Histoire littéraire du sentiment religeux en France depuis les guerres de religion jusqu’ à nos jours. Un lascito di sapere considerato ancora oggi con rispetto dai tanti studiosi che, nell’arco di tutto il Novecento, si sono confrontati e imbattuti con le sue ricerche sulla spiritualità o, per dirlo con il famoso termine da lui inventato, sulla «metafisica dei santi»: da Jean Daniélou a Jules Lebreton, da don Giuseppe De Luca a Michel de Certeau, fino a Xavier Tilliette. Nato nel 1865, Bremond entra a 17 anni nella Compagnia di Gesù e, dopo aver percorso la classica formazione teologico-filosofica dell’Ordine ignaziano, diviene redattore della prestigiosa rivista Études; uscirà però dai gesuiti nel 1904 «per incompatibilità di carattere», rimanendo un semplice prete fino al termine della sua operosa vita. Nel 1923 viene nominato accademico di Francia, ma per le molte amicizie moderniste – Alfred Loisy, Antonio Fogazzaro e George Tyrell (gli fu accanto nel letto di morte e partecipò ai suoi funerali) – dovette subire la sospensione a divinis per più mesi e molti «sospetti» sull’ortodossia dei suoi scritti. L’eredità di Bremond resta tuttora importante, se si pensa allo spazio dato nelle sue ricerche alla storia di grandi convertiti al cattolicesimo come Newman, ma anche all’impronta lasciata nella sua formazione da pensatori del calibro di Maurice Blondel (con il capolavoro L’Action) e Henri Bergson. Ne è convinto il filosofo Armando Savignano, autore del bel saggio pubblicato pochi anni fa dalle Edizioni Messaggero di Padova Preghiera e poesia. L’esperienza religiosa in Henri Bremond: «Per influsso di Newman e grazie soprattutto all’amicizia con Blondel, Bremond prese coscienza dell’apologetica tradizionale. La nuova apologetica, basata sull’assenso reale (Newman) e sulle ragioni del cuore (Pascal), trovava compimento nella filosofia di Blondel e soprattutto era – per così dire – vivificata dall’esperienza, di cui l’Histoire littéraire costituisce la base storica e religiosa. Del resto la "metafisica dei santi" altro non è che l’analisi dell’esperienza mistico-religiosa, di cui la preghiera pura, senza cioè i risvolti edonistici, costituisce il nucleo centrale e la sintesi filosofico-religiosa alla luce di un armonico equilibrio tra istanze antropocentriche e teocentriche». Il professor Savignano accenna anche a un altro merito di Bremond: «Quello di aver capito molto prima di altri la grandezza del cardinale John Henry Newman e del suo "primato della coscienza" e soprattutto di aver fatto conoscere per primo il suo pensiero ai francesi». Ma è nello studio del grand siécle, il Seicento francese, che si sprigiona tutta l’originalità bremondiana grazie alla rilettura in chiave moderna dell’«umanesimo devoto» di san Francesco di Sales, alla riscoperta della spiritualità di Port Royal e di modelli di ascesi che portano i nomi di Pascal, Berulle, Fénelon e dell’amatissimo gesuita Louis Lallemant. «È solo in quest’ottica che si può capire la sua grandezza – sottolinea la francesista Benedetta Papasogli, allieva di Giovanni Macchia –. È stato un pioniere perché ha disegnato, per primo, la geografia di questo secolo anche con il fascino della sua scrittura, molto colloquiale. Tuttora bisogna seguire le sue tracce storiografiche (molte volte non ancora studiate) e ripartire da Bremond stesso come "caso a sé" per capire il Seicento. La sua lente di osservazione, come quella delineata da De Certeau, ci hanno aiutato a capire il valore della mistica come "scienza della fede", "mistica della notte" e dell’"assenza di Dio". Grazie alla loro indagine, in un certo senso, la coscienza religiosa del Novecento con la sua idea tragica di "morte di Dio" ha cercato se stessa nello specchio della mistica seicentesca». La diffusione del nome di Bremond in Italia e la sua "scoperta" si devono soprattutto a un sacerdote di origini lucane, esperto di storia della pietà: don Giuseppe De Luca, con cui il grande francese intrattenne una lunga corrispondenza. «Quest’amicizia rappresentò per entrambi una grande occasione di confronto  – sostiene lo storico della spiritualità don Pietro Zovatto –. De Luca ha subìto certamente la superiorità intellettuale di Bremond e forse proprio per questo ne ha favorito la conoscenza del pensiero in Italia. Il sacerdote scrittore veniva definito affettuosamente dall’intellettuale francese "il piccolo Bremond della storia della spiritualità italiana"; d’altra parte De Luca negli ultimi anni della loro amicizia mostrò alcune riserve sulla nozione di pietà si Bremond (deluchianamente "essa nasce dal popolo e rimane nel popolo"), come anche non si trovava nel suo "scavo troppo psicologico" dei mistici, intravedendo nell’indagine storiografica del francese la presenza di una "teologia gesuitica troppo razionalistica" che ne faceva "un intellettuale troppo intellettuale", con uno stile di scrittura "troppo ricercato", libellistico. Criticava pure la sua "eccessiva" simpatia verso il movimento quietista o cripto-giansenista, però bisogna riconoscere che l’Histoire è sempre rimasta un faro e un modello insuperato per don De Luca». Ma il vero erede ed ermeneuta di Bremond in chiave moderna sarà senza ombra di dubbio, sul finire degli anni Sessanta, un altro gesuita: Michel de Certeau. È la convinzione del benedettino tedesco e teologo Elmar Salmann: «Entrambi sono due sacerdoti ignaziani border line. La questione dell’interpretazione mistica dell’eredità di sant’Ignazio è presente in tutt’e due; entrambi smaltiscono la crisi della modernità mediante il recupero della mistica. Bremond vuole scoprire il fondo della preghiera e della presenza pura di Dio, che non si lascia ingabbiare dai dogmi e dalla teologia scolastica; e in questo c’è una grande sintonia tra i due. De Certeau proprio negli anni della contestazione del 1968 valorizza del suo "maestro" la scoperta della Mistica con la lettera maiuscola: non più aggettivo, ma sostantivo. Tuttavia De Certeau si discosta da Bremond per la sua rappresentazione della mistica e degli stati dell’anima, dalla sua storiografia troppo sentimentale e metafisica; con il gesuita savoiardo subentra una lettura diversa dell’"assenza di Dio" impregnata di psicanalisi grazie alle lezioni di Foucault e Lacan: irrompe, in una parola, il post-moderno. In questa visione della mistica c’è la differenza, quasi la frattura tra i due grandi studiosi, ma anche la loro reciproca ricchezza».