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Intervista. Il politologo John Keane: in democrazia serve umiltà

Alessandro Zaccuri martedì 16 marzo 2021

John Keane

L’Antartide, per esempio. «Di solito se ne parla per motivi ambientali – osserva il politologo John Keane –, trascurando il fatto che questo territorio è governato da un sistema molto prossimo alla democrazia monitorante». La monitory democracy è uno degli elementi portanti della riflessione di Keane, che divide la sua attività tra l’Università di Sydney (in Australia, ad Adelaide, è nato nel 1949) e il Centro di ricerca per le Scienze sociali di Berlino. Pensatore molto influente nel contesto anglosassone, come dimostra il dibattito suscitato dal suo recente saggio sul “nuovo dispotismo”, finora lo studioso australiano non era mai stato pubblicato in Italia. Adesso però è proprio un suo libro, il corposo Potere e umiltà (traduzione di Piernicola D’Ortona, prefazione di Anna Loretoni, pagine 492, euro 45,00), a inaugurare la collana “La stanza del mondo”, ideata e diretta da Paola Caridi per l’editore torinese Hopefulmonster. L’argomento centrale è esattamente il concetto di “democrazia monitorante”, indicato come strumento privilegiato per affrontare la complessità del presente.

«Di norma i cittadini si servono di tradizioni consolidate e di consuetudini sociali per semplificare e tenere a bada le complessità della vita. Oggi come oggi, però, populisti come Bolsonaro in Brasile, Duterte nelle Filippine, Vucic in Serbia, Babis nella Repubblica Ceca e altri ancora nel mondo fanno qualcosa di diverso: sfruttano la complessità per far levitare l’inquietudine sociale. I populisti promuovono un atteggiamento di durezza e mal sopportano i processi istituzionali di dare e avere. I loro obiettivi non hanno nulla di verificabile. Mirano a distruggere i meccanismi di controllo, bilanciamento e responsabilità pubblica, in una specie di colpo di Stato al rallentatore».

In questo trovano terreno fertile, non trova?

Sì, mi rendo conto di come il fuoco del populismo si alimenti della disaffezione derivante dalle attuali ingiustizie e, nel contempo, prometta di illuminare un futuro migliore. In un nome di un “popolo” fittizio, però, il populismo va politicamente all’attacco di quelli che vengono di volta in volta definiti diversi, dissidenti o addirittura nemici. Peggio ancora, le persone sono incoraggiate a schivare l’estrema complessità del mondo contemporaneo con un espediente alla Don Chisciotte, e cioè nascondendo la testa nelle sabbie di una deliberata ignoranza. Si punta a fluttuare cinicamente attraverso la vita, prendendo gli altri a male parole e trattandoli in modo aggressivo. Il populismo rafforza le illusioni più folli e si congeda dalla verità, concentrandosi sulle sciocchezze.

Ed è a questo punto che interviene la democrazia monitorante?

La vedo come la cura più adatta per contrastare gli effetti tossici del populismo, perché permette di consolidare il rispetto della complessità da parte dei cittadini attraverso la libera circolazione di punti di vista differenti, la denuncia delle ipocrisie, la messa in discussione dei politici corrotti e con processi di analisi serrata che permettono di tenere sotto osservazione le attività dello Stato e delle industrie.

In che cosa consiste esattamente la democrazia monitorante?

Bisogna risalire al significato del verbo latino monere: mettere sull’avviso, consigliare. Con l’espressione monitory democracy ci riferiamo a una forma storicamente innovativa di democrazia, che poggia sulla rapida diffusione di molte nuove istituzioni di controllo: cani da guardia, se così vogliamo chiamarli, che all’occorrenza non smettono di abbaiare. Nella mia vita ho assistito alla nascita di oltre cento soggetti di questo tipo, sorti in contesti molto differenti, non solo in Occidente. Le prime forme di cogestione lavorativa (Mitbestimmung) si incontrano nella Germania degli anni Quaranta, i comitati per le generazioni future vengono inizialmente istituite in Galles, le cosiddette “sentinelle dei ponti” sono una specialità sudcoreana, il Sudafrica ha garantito notorietà internazionale alle commissioni per la verità e la riconciliazione, i bilanci partecipativi sono un’invenzione brasiliana. Queste realtà di monitoraggio possono attecchire ovunque, nell’ambito del governo locale o nazionale così come nella società civile e nei contesti di frontiera.

Mettendo in crisi i tradizionali processi di rappresentazione?

Favorendone il cambiamento, semmai. Le elezioni, il sistema dei partiti politici e gli stessi parlamenti esercitano oggi una presa sempre più debole sulle esistenze dei cittadini e sulla difesa dei loro interessi. In passato il principio fondamentale era quello di “una persona, un voto, un rappresentante”, oggi l’istanza etica che presiede alla democrazia monitorante è quella di “una persona, molti interessi, molti voci, voti molteplici, molteplici rappresentanti”. A queste condizioni, la democrazia non si esaurisce più nel libero processo elettorale, ma comporta un percorso molto più complesso. Nel momento in cui tengono in costante stato d’allerta aziende, governi, partiti, politici e governi eletti, questi nuovi cani da guardia possono denunciare gli abusi di potere, indurre gli esecutivi e le imprese a cambiare le rispettive agende, talvolta perfino condannare alla riprovazione generale.

Quali sono le caratteristiche essenziali di questo processo?

Non dobbiamo dimenticare che la democrazia monitorante non è mai un progetto concluso e non può promettere di portare il paradiso in terra. Tuttavia, laddove il modello funziona ragionevolmente bene, troviamo sempre leader politici non corrotti, cittadini animati da forte senso civico, numerose piattaforme mediatiche e numerosi organismi di controllo pronti a contrastare ogni abuso di potere. Non meno importante, come ho cercato di dimostrare in Potere e umiltà, è la riconsiderazione accurata dei motivi originari della democrazia monitorante così come è emersa nel corso degli anni Quaranta del secolo scorso. Allora circolava un’energia oscura, scatenata dal tremendo massacro della guerra, dalle dittature, dai totalitarismi. In quella fase, sfidando la cupezza cosmica di quanto stava avvenendo, l’universo di senso della democrazia subì un’espansione straordinaria. Thomas Mann diede voce a questo sentimento insistendo sulla necessità che la democrazia rinnovasse «la coscienza spirituale e morale che ha di sé». Fu proprio in questo decennio che si cominciò a immaginare e a costruire un altro modello, che scacciasse i demoni di un potere incontrollabile e arbitrario. Lo comprese bene C.S. Lewis, quando respinse l’idea ingenua per cui la democrazia sarebbe la forma di governo migliore perché permette alle persone di avvantaggiarsi delle rispettive quote di rappresentanza. La vera importanza della democrazia, sosteneva Lewis, sta nel fatto che, essendo gli esseri umani creature fallaci, a nessuno può essere consegnato un potere esente dal controllo. In questo senso la democrazia è l’arma migliore per contrastare gli abusi, compresi i misfatti perpetrati da leader che, avendo vinto le elezioni, pretendono di agire nel nome di un fantomatico “popolo sovrano” (Lewis pensava a Hitler e a Mussolini).

La sovranità, in effetti, rappresenta un nodo molto delicato…

Siamo abituati a concepire la sovranità in termini di demarcazione territoriale, in particolare con il riferimento agli Stati: la democrazia canadese, della Francia, dell’India. La collocazione geografica parrebbe essere il luogo in cui la democrazia si manifesta, un po’ come se fosse il suo indirizzo postale. A dispetto di quanto vogliano sostenere i nazionalisti e gli antiglobalisti di oggi, il problema che è ormai ogni democrazia territoriale agisce in condizioni di post-sovranità. Il contagio da Covid-19 è l’ennesima conferma di quanto le reti mondiali di interdipendenza, sorrette da flussi di informazione digitali ravvicinati nello spazio e nel tempo, non consentano più alle singole democrazie territoriali di rimanere splendidamente isolate rispetto al resto del pianeta. Le famose “azioni a distanza” di Einstein, i salti di specie e gli effetti-farfalla sono una realtà incontestabile. Personalmente li considero come fenomeni quantici che trascinano gli ideali e le pratiche della democrazia tradizionale in una crisi al rallentatore, la cui soluzione può consistere solamente in un ripensamento delle pratiche democratiche in modalità quantiche, appunto, ossia più fluide e capillari. Il mio auspicio è che il sentimento democratico si sviluppi in geometrie nuove. Riandiamo alla duplice convinzione per cui la Terra sarebbe stata piatta e posta al centro di un piccolo universo immutabile e limitato. Dopo di che, pensiamo a come ci stiamo finalmente sbarazzando del pregiudizio per cui gli esseri umani si troverebbero in una posizione separata e predominante nei confronti degli animali e di ogni altra specie vivente, o ancora al modo in cui Carlo Rovelli ci ha mostrato quanto la nostra visione convenzionale, che fa della realtà qualcosa di oggettivamente osservabile e fattuale, debba lasciare spazio alla consapevolezza della “realtà” come rete spaziale di eventi granulari soggetti alla probabilità e alla aleatorietà. È con questo spirito che in Potere e umiltà mi interrogo sulla possibilità che la democrazia possa esistere anche al di fuori di una cornice territoriale. Perché non immaginare la democrazia in maniera del tutto differente, come una speciale forma politica e un organico sistema di vita volti a garantire uguali opportunità all’interno di una molteplicità di contesti spaziali profondamente interconnessi? Che cosa ci impedisce di riconoscere nella democrazia un processo mai del tutto concluso mediante il quale i popoli, con il sostegno dei loro rappresentanti, giungono a governare sé stessi e il proprio ecosistema con modalità differenti, corrispondenti a differenti ritmi spazio-temporali e a regole non esclusivamente delimitate dai confini statali?

È il caso dell’Antartide?

Di solito ci si appassiona allo scioglimento dei ghiacci del Polo Sud e alle conseguenze sul cambiamento climatico, ma non si sa nulla di come sia governato questa vasta distesa di freddo. Eppure il modello dell’Antartide può aiutarci a riflettere sulla democrazia. Non soltanto rappresenta uno spazio nel quale si sono messi a punto nuovi modelli rappresentativi per la biosfera e nel quale la distinzione tra natura e politica risulta molto affievolita. Benché qualcosa di simile sia già avvenuto in Europa, questo è il primo continente che si sia formalmente affrancato dalla condizione di Stato territoriale sovrano. L’Antartide post-sovrana è un genere inedito di conglomerato governativo, regolato dal Trattato Antartico, da un parlamento in via di costituzione, dal rispetto di leggi proclamate da istituzioni che condividono il proprio potere sulla base di valutazioni trasparenti e dell’esercizio del diritto di voto. Questi strumenti di governo, insieme con gli scienziati che esercitano la propria cittadinanza agendo da cani da guardia in rappresentanza della biosfera, intrattengono con il territorio legami tutt’altro che semplici. Insomma, sì: l’Antartide è governata da una sorta di democrazia monitorante.

In che modo la pandemia potrebbe influire sui processi in atto?

Uno degli esiti più singolari e inattesi di questa grande pestilenza sta nel fatto che il Paese colpito per primo può ora godere dei vantaggi tecnologici, di governo e di soft power derivanti dal fatto di essere stato anche il primo a liberarsi del virus. Ricordiamo che nel 2020 la Cina ha stretto accordi che valgono il 30% del Pil globale, un record assoluto. Nel mio The New Despotism invito a non sottovalutare l’intima capacità di resilienza e la posizione di potere espresse dalla Cina a livello planetario. Questo potrebbe essere un momento d’oro per Pechino, una seconda svolta dopo quella verificatasi all’epoca di Nixon e Kissinger, quando senza aver bisogno di sparare un colpo la Cina riuscì ad approfittare pienamente del caso negli usa per farsi avanti per ricostruire il proprio impero, mandando in pezzi l’illusione della superiorità americana. Alcuni osservatori sono tentati dal trarre la conclusione che il “modello cinese” sia il modo migliore per affrontare eventuali pestilenze future.

Lei che ne pensa?

Non sono di questo parere. Una manciata di governi democratici (Urugay, Corea del Sud, Taiwan, Nuova Zelanda e la stessa Australia) ha dimostrato l’esistenza di alternative efficaci. Nell’ultimo anno queste democrazie monitoranti hanno rivelato di avere qualcosa in comune. Sostenuti da messaggi chiari e inequivocabili diffusi sui social media, questi governi hanno provveduto a chiudere progressivamente scuole, bar e ristoranti, centri commerciali e altri luoghi pubblici. Il rilevamento digitale è stato impiegato per individuare e bloccare le catene di trasmissione del contagio. Tutte le decisioni governative sui provvedimenti da adottare sono passati al vaglio della valutazione scientifica. Di norma si è fatto ricorso ad accertamenti clinici su larga scala, a strumenti sofisticati di tracciamento e al confinamento delle comunità in cui erano presenti malati. Nel momento in cui l’infezione risultava incontrollabile, sono state avviate campagne mirate di test molecolari e di rilevamento digitale, che hanno permesso a una serie di categorie, dagli anziani agli insegnanti, dalle squadre di calcio alle équipe mediche e ad altri gruppi di cittadini, di tornare rapidamente alla loro vita sociale, con costi molti governativi molto ridotti. L’elemento davvero interessante è che i processi di diagnosi precoce e di allerta digitale messi in atto dai governi hanno ribadito quanto sia cruciale la trasparenza. All’opposto, lo stile di governo alla Boris Johnson, con le sue decisioni alla cieca, ha generato confusione, accentuato la disparità nell’accesso ai test e ai dispositivi di protezione individuale, portato a chiudere un occhio sulle violenze domestiche consumate durante la quarantena. Il risultato? Milioni di contagi, centinaia di migliaia di morti evitabili. Una delle principali lezioni di quest’anno è che la trasparenza governativa attribuisce un nuovo significato all’antico adagio di Socrate, secondo il quale una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. Servendosi di strumenti digitali, i Paesi sopra ricordati si sono attenuti a quel “pensiero nell’emergenza” che secondo Elaine Scarry consente di assicurare “eguaglianza nella sopravvivenza”. Questi governi hanno affrontato il picco e abbassato la curva non solo attraverso chiusure di confini e di istituzioni. Il segreto del loro successo sta nel dichiarato coinvolgimento e nella responsabilizzazione dei cittadini, puntualmente invitati a fare la loro parte. Così si è incentivata la vigilanza di vicinato e si sono allestiti presidi santari di drive-through, si sono offerte ogratuitamente mascherine e disinfettanti, si sono indotte le società di big data e di telefonia mobile a condividere informazioni, si sono incoraggiati comportamenti di autodiagnosi e di segnalazione dei sintomi. Il tutto con l’obiettivo di corroborare la fiducia e la solidarietà sociale durante la crisi.

C’è una questione irrisolta che le sta particolarmente a cuore?

Il nostro mondo ne sta sperimentando parecchie, alcune delle quali decisamente insidiose. Ora come ora la mia maggior preoccupazione riguarda i tentativi di scatenare una guerra contro la Cina. Vivo in quell’area geografica e posso assicurare che la distruzione del regime di Pechino rappresenta la priorità di molti “falchi”, persuasi che la Cina sia un castello di carte da far volare in aria con uno schiocco di dita. Un’altra Guerra fredda, ecco che cosa vogliono. Sono convinti della superiorità della democrazia di matrice statunitense, sostengono che la Cina sia un drago minaccioso, responsabile di una pandemia e pronto a rubare altri posti di lavoro. Alimentano l’ostilità contro il “totalitarismo” e l’”autoritarismo” del regime comunista. Dal mio punto di vista, il problema di questa visione politica non consiste tanto nella sottovalutazione della tenuta di cui lo stesso regime è capace, né in una scarsa consapevolezza riguardo alla storia degli imperi, né nell’idea che la chiamata alle armi contro la Cina sia il grido di dolore di un Occidente che attrae xenofobi, razzisti e colonialisti di ritorno. Questi attacchi sfrenati guardano con sufficienza alle disastrose conseguenze che la caduta di Pechino avrebbe su scala globale. Nell’epoca degli arsenali nucleari evocare uno scontro militare è una follia. Gli storici definiscono “trappola di Tucidide” la convinzione che un conflitto armato diventi pressoché inevitabile quando un impero nascente ne sfida uno già consolidato. Ma questa trappola esiste solamente nella testa dei nuovi paladini della Guerra fredda. Per trattare con la Cina occorrono strategie più realistiche, nella logica di quello che mi piace chiamare “non allineamento agile”. È un atteggiamento che presuppone un impegno di cooperazione critica con la Cina in campi quali lo sviluppo delle infrastrutture, la ricerca scientifica, l’alta formazione e le energie rinnovabili. Il non allineamento agile prende atto del fatto che, non essendo oggi possibile trovare una soluzione ai problemi planetari senza il sostegno della Cina, la collaborazione con questo Paese fatalmente destinata a subire alti e bassi. Gli accordi commerciali saranno prevedibilmente spinosi, come conferma l’esperienza dell’ex premier australiano Kevin Rudd: quando si arriva al negoziato con la Cina, con i suoi alleati e con i suoi avversari, diceva Rudd, una vera amicizia duratura (è il concetto di zhèng you) si edifica solo su un’incrollabile franchezza e sulla piena consapevolezza degli interessi e degli obiettivi fondamentali. Solo così si possono raggiungere risultati positivi. Rompere con la Cina non è necessario. Anzi, sarebbe un’impresa insensata e autodistruttiva.

Da qui il valore dell’umiltà come virtù politica?

Le virtù democratiche sono molte: pazienza, misericordia, coraggio, rispetto degli altri eccetera. Lo stesso vale per l’attitudine al compromesso, che secondo un antico proverbio tedesco è l’arte di dividere la torta in modo che ciascuno si convinca di aver ottenuto la fetta più grande. Tutto considerato, però, la virtù cardinale è proprio quella dell’umiltà. Uso la parola italiana perché per me è stato molto significativo l’incontro con Norberto Bobbio e il suo Elogio della mitezza. Come lui penso che le democrazie abbiano bisogno di cittadini democraticamente virtuosi e che, prima ancora, poggino sulle fondamenta delle virtù. Mi convince meno il suo inno alla mitezza, che Bobbio considerava alla stregua di una virtù sempre in balia della politica, intesa come lotta potenzialmente violenta condotta attraverso le strutture statuali. L’umiltà è altro e non ha nulla a che vedere con la sottomissione del gregge. L’umiltà sa sempre opporsi all’arroganza del potere, è la consapevolezza dei propri limiti e di quelli altrui e, insieme, è l’assunzione di responsabilità affinché il riconoscimento e il rispetto di questi limiti siano universalmente garantiti. Le persone umili si percepiscono come abitanti della terra, nel senso di humus, terreno, che è la radice della parola umiltà. Si rendono conto di avere un debito verso il mondo non umano, sanno di non essere onniscienti, di non esseri dèi oppure dèe, meno che meno Dio. L’umiltà è l’esatto opposto del desiderio smodato di conseguire un potere predatorio, e in questo si distingue dall’umiliazione. L’umiltà incoraggia, rafforza chi non ha potere, conferisce un’energia interiore che permette di agire al cospetto del mondo. Detesta l’arroganza, la dismisura, così come la violenza e i violenti, sempre convinti che la ragione stia dalla loro parte. L’umiltà si irradia alla presenza degli altri, in modo quieto e gioioso. È una virtù sociale, una forma di generosità. Giustamente sant’Agostino sosteneva che, lì dove si trova l’umiltà, si trova anche la carità. Le persone umili, in definitiva, vivono nella democratica convinzione che il mondo possa essere un posto miglior, più tollerante e più ispirato all’uguaglianza.