Agorà

INTERVISTA. Il paradiso necessario

Lorenzo Fazzini venerdì 8 febbraio 2013
​Sul quotidiano cattolico francese La Croix, quando uscì nel 2011, il critico Patrick Kechichian scrisse che questo libro rappresentava, nonostante la giovane età, il «coronamento» dell’itinerario culturale del suo autore, Fabrice Hadjadj. Questo giovane pensatore francese (42 anni), da poco tempo direttore dell’Istituto Philanthropos di Friburgo, in Svizzera, già vincitore del prestigioso Grand Prix Catholique de Littérature con Farcela con la morte (Cittadella), torna da oggi in libreria con Il Paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda (Lindau, pp. 480, euro 29). L’erudizione dell’autore (che spazia da Kafka a Dante, da Yves Bonnefoy a Marcel Proust, fino a Dante e all’amato Nietzsche) si sposa con la passione dell’intellettuale che fa della propria fede cattolica (scoperta in età adulta: si fece battezzare a Solesmes) una feritoia per pensare il reale in maniera ancora più spregiudicata, e non un muro che impedisce l’avanzare del ragionamento.«Il paradiso è un orizzonte di fecondità traboccante, e non un sogno sterilizzatore. Perché la nostra vita sarebbe sonnolenta senza questo accidenti di bisogno di Eden». È quanto scrive nel suo libro. Come far sì che il paradiso non «sterilizzi» le aspirazioni umane?«Marx pretendeva di sbarazzarsi del paradiso celeste, per tornare all’idea di un paradiso terrestre, dove però l’oppio viene immesso nelle vene delle persone in dosi mortali. Lo diceva già Paul Claudel: "Quando l’uomo tenta di realizzare il paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno". Perché avviene ciò? Perché si pretende di agire da un’ideologia del bene totale, realizzabile con le nostre mani. La speranza dei paradiso celeste impedisce questa follia totalitaria».La fede nel paradiso però non ci ha risparmiato Auschwitz o i gulag…«Però essa ci ricorda che noi non abbiamo l’ultima parola e che il viso di qualunque altro nostro prossimo è chiamato a risplendere di una gloria divina. Da ciò consegue che, se noi agiamo per il bene, questo non avviene secondo una proiezione ideale o un piano quinquennale, ma perché riconosciamo il primato dei volti sulle idee e perché crediamo che sul più antipatico tra i volti di chi incontriamo si posa uno sguardo di infinita tenerezza. Di conseguenza, a noi tocca un rapporto personale, concreto e attento con chiunque si fa a noi incontro».«Nietzsche è salvato». Lei ha un passato nietzschiano e anche oggi considera il filosofo de «La gaia scienza» un interlocutore fondamentale. In che senso Nietzsche si è "guadagnato" la salvezza?«Certamente non pretendo di sondare il mistero delle anime né anticipare il giudizio di Dio. Se dico che Nietzsche è salvo, lo faccio come fece Dante, che decideva di mettere certe persone in paradiso e altre all’inferno. Vedrei bene Nietzsche nel cielo di Marte. Ma questo augurio ha un fondamento ragionevole. Nietzsche voleva combattere contro il nichilismo e il fondo del suo impegno era di tipo "eucaristico"».Perché tira in ballo l’eucaristia?«Mi spiego meglio. Se Nietzsche criticava il cristianesimo (ma anche il platonismo, la metafisica e il buddismo …), lo faceva perché pensava che tutti questi sistemi, senza distinzioni, rifiutano quel che ci è chiesto qui e ora. A suo dire essi inventavano un al di là di apparenze, un "dietro-mondo", con lo scopo di disprezzare e calunniare questo mondo. Nietzsche voleva che si dicesse "sì" al mondo e che ci si mettesse dentro una sorta di azione di grazie davanti a tutto quel che ci veniva presentato. Ancor oggi egli propone un’obiezione eccellente a quanti propongono un paradiso di evasione, di fuga davanti al nostro stupore e alla nostra responsabilità sulla Terra. Ci permette di ritrovare il verso senso del paradiso cristiano, che non è un "altrove", ma un "in mezzo a voi", come disse Gesù, il quale ci comandava di stupirci davanti a un fiore di campo e all’incontro dei più poveri e piccoli tra noi».Pur trattando del paradiso, il suo saggio parla anche dell’inferno come «luogo della tolleranza divina». Con esso, lei scrive, «Dio si inchina dinanzi a chi rifiuta liberamente e volontariamente la sua grazia, tollera per sempre questa dissidenza, perché se può rapire un’anima, non vuole sequestrarla». Oggi però dai pulpiti si sente parlare poco di quelli che i nostri padri chiamavano i «novissimi»…«Se non si parla dei novissimi non si parla di noi stessi. Aristotele sosteneva che la causa finale è la causa delle cause. È la finalità che dice il perché ultimo di un essere. Faccio un esempio: se si trova per caso una chiave, essa non significa niente da sola. Sono la porta e la serratura che essa apre che ci dicono la natura vera di quella chiave. Possiamo dunque affermare che la meditazione sulle cose ultime ci illumina sulla natura dell’uomo. Ad esempio: per avvicinare con verità il corpo umano, bisogna conoscerne la vocazione ultima, ovvero riflettere sul corpo glorioso».Perché si tace sui «novissimi»?«A mio giudizio per due ragioni: vogliamo far apparire la Chiesa come una forza alleata del progresso. E quindi rischiamo di ridurla a una super-assistente sociale, un’esperta psicologa o una grande moralizzatrice. Secondo: la predicazione sui fini ultimi è indebolita da un immaginario datato, evasivo e che non risponde più alla sensibilità moderna: non ha saputo rinnovarsi né attraversare la critica nietzschiana, ben più forte di quella marxista».