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Musica. Rami Khalifé: «Il mio pianoforte profuma di Libano»

Pierachille Dolfini mercoledì 25 settembre 2019

Il pianista e compositore franco-libanese Rami Khalifé suonerà sabato a Piano Ciy Palermo

Il Libano, racconta il pianista Rami Khalifé, lo ha «costretto all’esilio». Lo ha reso orfano. Non dei genitori, ma «di una terra, di una casa» a causa della guerra civile che ha insanguinato il paese mediorientale. A otto anni il musicista, classe 1981 (proprio oggi festeggia i 38 anni), ha lasciato Beirut e insieme alla sua famiglia si è trasferito in Francia. «Un’altra casa, un’altra terra». Nonostante questo, però, le sue radici Rami Khalifé le mette (ben riconoscibili) nella sua musica. Note che uniscono suggestioni popolari a echi classici e a musica elettronica. Il pianista, che dopo aver studiato con il padre Marcel (la madre Yolla è una popolare cantante) si è laureato alla Juilliard School di New York, le proporrà sabato a Piano City Palermo: appuntamento alle 21.30 allo Stand Florio con improvvisazioni e rivisitazioni di grandi classici, la cifra che da sempre contraddistingue il lavoro di Khalifé. «Quando suono, quando compongo mi piace creare un mondo» racconta il musicista che si muove tra elettronica e rock, che scrive colonne sonore e che nel suo catalogo ha due concerti per pianoforte e orchestra e uno per violoncello. «Non cerco di cambiare gli stili – spiega – lascio che siamo le emozioni a guidarmi».

Come definirebbe la sua musica, Rami Khalifé? E in che modo consiglia d un ascoltatore di avvicinarsi ad essa?

La mia musica è un mix di tantissime cose, dovrei essere capace di definirla, eppure non è così. E forse è giusto. Potrei dire probabilmente che ci sono elementi classici, ma anche elettronici, rock, e influenze orientali. Ma la cosa più importante per me piuttosto che definirla è provare a creare un mondo autentico e originale, cosicché quando le persone ascoltano le mie partiture possono: questo è Rami Khalifé.

Come unisce linguaggio classico e musica elettronica? E come mette le sue radici, la musica popolare nelle sue partiture? In alcuni brani, poi, usa anche la voce.

Non provo a combinare gli stili, il mio cuore parla e lascio che le mie emozioni mi guidino. La musica migliore è quella che più che al compositore sembra perfetta e naturale all’ascoltatore. Ed è questo quello che provo a fare. I confini sono invenzioni dell’uomo, mi sembra un concetto folle: preferisco muovermi liberamente attraverso stili e suggestioni, avere libertà di espressione quando suono.

Cosa è per lei la musica e cosa ha significato nella sua vita?

La musica è sempre stata la mia più grande passione. Negli anni, il mio amore per la musica non è mai andato perso, anzi, al contrario, mi ha aiutato a superare disagi, gioie, e inoltre è la migliore terapia che potessi mai sognare.

Una scelta obbligata quella di suonare uno strumento essendo nato in una famiglia di musicisti?

Mai, è stato un processo naturale. Sono sicuro che, indipendentemente dai miei genitori, sarei voluto diventare un musicista. È qualcosa che non puoi spiegare, ma che senti.

Ha dovuto rinunciare a qualcosa negli anni dell’adolescenza per la musica?

Diventare un musicista professionista mi è costato molto e ho dovuto fare molti sacrifici. Non ho mai vissuto i miei anni da adolescente, mentre i miei amici andavano alle feste, io mi esercitavo al piano per ore e ore. Ma tutti quei sacrifici sono stati ripagati, ne è valsa la pena e benedico ogni giorno di essere stato capace di esprimere me stesso attraverso questo mezzo e di poter vivere della mia passione.

Cosa ha significato per lei lasciare a otto anni il Libano e trasferirsi in Francia?

È stata molto dura. Quando sei un bambino tormentato che vissuto molti traumi come la guerra e l’esilio non sai davvero chi sei e sei alla continua ricerca della tua identità, senti di non appartenere a nessuna terra e allo stesso tempo a tutto. È la dualità che mi ha guidato nella mia arte, la mia musica porta con sé molti sentimenti opposti ed estremi, probabilmente frutto della mia esperienza di vita.

Che effetto le ha fatto tornare in Libano? Che sensazione ha provato?

Vado in Libano regolarmente. Per il mio paese natale ho una sorta di sindrome di Stoccolma: lo amo e lo odio allo stesso tempo, i due sentimenti sono inscindibili. Il Libano quando ero piccolo mi ha provocato traumi che mi hanno segnato, ma allo stesso tempo quando ritorno a casa, tra le montagne e gusto quel cibo che ha il sapore della mia infanzia mi sento davvero a casa. Certo, oggi la situazione non è buona, economicamente il Libano è sul ciglio del fallimento e il suo problema principale è la corruzione. Tutti i politici sono corrotti. In queste condizioni è veramente difficile costruire un paese. E questo, ancora oggi, mi costringe all’esilio.

Il dolore per il suo paese lo ha messo anche nel suo Requiem for Beirut. Come è nata quella composizione?

Requiem for Beirut è la storia di quel che provo riguardo alla mia città, dentro ci sono i miei ricordi di bambino. È un brano che è impregnato di dolore, di tristezza e di malinconia, ma che ha anche dentro una grande energia e un po’ di speranza.

Suo padre Marcel è stato nominato artista per la pace dell’Unesco e anche lei si impegna in questa direzione quando insieme girate il mondo con le vostre melodie. La musica può essere strumento per far parlare chi solitamente si affida alle armi?

La musica è il dialogo perfetto che si instaura tra culture e persone, è il nostro patrimonio comune come esseri umani ed è per questo che noi musicisti abbiamo la capacità di raggiungere le masse scavalcando confini nazionali, steccati sociali e culturali. Non so come accade, ma è pura magia.