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IL DEBUTTO ALLA SCALA. Il giovane regista Damiano Michieletto: «Verdi? Racconta l’oggi»

Pierachille Dolfini lunedì 20 maggio 2013
Di fronte al titolo Un ballo in maschera Damiano Michieletto si è fatto una semplicissima domanda: «Perché viene organizzato questo ballo?». Risposta altrettanto semplice, ma spiazzante. «Nel libretto non lo si dice mai». Allora? «Il Ballo del titolo sarà un party elettorale indetto da Riccardo che ama circondarsi di fan perché, da politico, ha un estremo bisogno di consenso». Ecco il cuore di Un ballo in maschera, l’opera di Giuseppe Verdi che il prossimo 9 luglio, con Daniele Rustioni sul podio, segnerà il debutto al Teatro alla Scala di Michieletto, 38 anni, il più geniale regista lirico della scena di oggi. «Racconto il capolavoro verdiano, una delle pochissime opere che nel titolo non ha il nome del/della protagonista – racconta il regista che ha progetti nei maggiori teatri del mondo – come la crisi di un uomo politico che vive uno scarto tra il suo aspetto pubblico e quello privato».Lo fa, Michieletto, con il suo linguaggio diretto, con un’ambientazione contemporanea che spiazza chi è abituato a pensare alla lirica come a una cartolina ottocentesca?Anche alla Scala porto il mio stile che, ne sono consapevole, può piacere, ma anche non piacere. Ho visto molti registi arrivare nel teatro milanese e mettere da parte la loro cifra personale. Non è il mio caso. Con Un ballo in maschera voglio raccontare la crisi di un politico occidentale: non c’è nessun riferimento a personaggi precisi, ma il mio approccio è lo stesso con cui di recente il cinema ha raccontato Nixon e la Thatcher. Riccardo è un leader vincente, ma nel privato è solo: è un uomo in crisi, la sua vita è fatta di luci e ombre, ha degli scheletri negli armadi e per questo qualcuno lo vuole uccidere. Parla per slogan, quelli che gli prepara il suo ufficio stampa (il paggio Oscar). L’orrido campo del secondo atto è una periferia degradata, popolata di prostitute e Amelia verrà scambiata per una di esse. Il ballo del finale è un’ossessione di Riccardo che vede intorno a lui un mondo finto, affollato di persone che sorridono, ma che sono pronte ad ucciderlo.Un thriller.C’è troppo buonismo intorno al personaggio di Riccardo: in fondo ama la moglie del migliore amico, per arrivare al potere ha confiscato proprietà e non ha esitato ad uccidere. Alla fine c’è il perdono, ma Verdi come epitaffio mette un sinistro "Notte d’orror".Teme di affrontare la ribalta della Scala?Diciamo che vado tranquillo. Non frequento l’ambiente della musica lirica e quello che per qualcuno può essere un limite per me è una risorsa che mi mette al riparo dall’"ansia da Scala". Ho scelto di abitare in provincia, con mia moglie e i miei due figli, e questo è un valore aggiunto perché con la tecnologia posso essere dappertutto, ma ho anche il vantaggio di stare lontano dai centri di potere.Intanto a fine luglio a Salisburgo firma un nuovo "Falstaff".Ambiento l’ultima opera di Verdi nella Casa di riposo per musicisti di Milano intitolata al compositore. L’idea è che Falstaff sia un ex cantante che ha nel passato l’unica gioia e l’unica ragione di vita. Tutti i personaggi sono ricordi di un vecchio alcolizzato in un ospizio che alla fine, quando canta che Tutto nel mondo è burla, si accorge che tutto è stato solo l’illusione di un attimo e lui, con un bicchiere di vino, non si è mai mosso dalla sua stanza in casa di riposo. Non c’è la farsa e nemmeno la mascherata, c’è tanta malinconia. Dopo Salisburgo mi piacerebbe portare l’opera a Milano, magari proprio nei saloni di Casa Verdi dove sono stato a incontrare gli ospiti parlando a lungo con loro.Tutti i teatri vogliono in cartellone un suo spettacolo. Che effetto fa?Strano se penso che il mio percorso è un po’ fuori dal comune per il fatto di non aver mai fatto da assistente a nessun regista. Questo fa sì che il mio stile sia solo mio, costruito senza influenze e soprattutto modellato sulla vita quotidiana: quello che metto in scena è il mio modo, solo mio, di vedere le cose e dentro ci sono le mie esperienze di vita.Lirica, ma anche prosa: sta preparando "L’ispettore generale" di Gogol. Per avvicinarlo al nostro oggi mi ha illuminato una battuta di un personaggio che a un certo punto dice: «Ma guarda questi soldi sono tutti sporchi». Lo sono perché l’umanità che Gogol racconta è sporca, gretta e volgare. Lo spettacolo è prodotto dallo Stabile del Veneto e girerà per due stagioni. Saremo al Piccolo di Milano che mi ha affidato una nuova regia per la stagione 2014-2015.Con un’agenda così fitta non teme il rischio di sovresposizione?Un pericolo dal quale occorre mettersi al riparo dicendo dei no, anche quando costa fatica. Un bell’esercizio di umiltà. Ho detto molti no. Mi sono costati, ma sono serviti. Una regia ha bisogno di tempo e se riduci il tempo dedicato alla progettazione inevitabilmente lo spettacolo ne risente in qualità. In coscienza so se arrivo preparato in sala prove, con un progetto serio e capace di coinvolgere perché il teatro è un gioco di squadra e non basta avere una bella idea, occorre che tutti lavorino per realizzarla al meglio.Dirigerebbe un teatro?Un teatro lirico mai. Forse un teatro di prosa, ma tra un bel po’ di anni. Sono convinto che se uno fa il regista deve fare quello: studiare, provare. E se uno fa il direttore non può fare altro perché deve stare in teatro, vedere tutti gli spettacoli, tenere i contatti con il territorio, i rapporti con le scuole.