Agorà

INTERVISTA. «La mia vita con Giulio senza politica»

Antonio Maria Mira mercoledì 15 maggio 2013
«Mi mancheranno gli in­contri della domeni­ca. Quando Giulio ve­niva qui, e non perdeva una domeni­ca, parlavamo di calcio, della Roma, tutti e due tifosissimi. Non so come fa­cesse, ma sapeva tutto. Soprattutto di Totti. No, non parlavamo di politica. Parlavamo della Roma, ci racconta­vamo qualche barzelletta. Oppure io gli raccontavo di papà, morto quan­do aveva solo 3 anni. Giulio non si ri­corda niente, non si può ricordare perché era troppo piccolo». Ne parla al presente, sorride, ma si vede che è commosso, Francesco Andreotti, Franco per parenti e amici, fratello maggiore dello statista dc. Cento an­ni a luglio, lucido e ironico, storico co­mandante negli anni ’70 dei 'pizzar­doni' (i vigili urbani di Roma), ci o­spita nella sua casa vicino a Campo de’ Fiori e ci regala, con spiccata ca­denza romana, ricordi e aneddoti del suo rapporto con Giulio (lo chiama sempre così), dai giochi sul terrazzo agli incontri coi professori del fratel­lo, dal consiglio di accettare la pro­posta lavorativa di Moro all’abbrac­cio dopo l’assoluzione definitiva per mafia.Fino all’ultimo incontro a ottobre, ma a casa di Giulio (poi l’aggravarsi del­la malattia del fratello bloccò la tra­dizione). «Sono venuti il maresciallo della scorta di Giulio e l’autista. Mi hanno preso di peso e portato a casa sua a Corso Vittorio. Abbiamo parla­to di quando eravamo giovani e an­davamo in villeggiatura a Segni. Ci hanno portato un caffè e allora ho chiesto qualche biscotto. Li hanno portati ma Giulio se li è mangiati tut­ti lui e a me non ha lasciato niente. Ci sono rimasto male...». Ridacchia, proprio come il fratello.Chi era per lei Giulio Andreotti?«Mio fratello minore, ma anche fra­tello 'superiore'. Sa io sono sempre stato rispettoso della gerarchia... Quando ci siamo fatti questa foto (è quella che tiene sul letto assieme a quella della moglie), Giulio si era mes­so alla mia sinistra ma io l’ho sposta­to a destra. Lui era ministro...»Che rapporto c’era da ragazzi?«Siccome papà non aveva raggiunto l’anzianità per la pensione da inse­gnante, mamma rimase con noi tre fratelli a carico. Io fui messo in colle­gio e quindi non stavamo insieme. Appena sono uscito dal collegio mi sono subito impiegato per aiutare ca­sa e anche Giulio che ancora studia­va. Anzi andavo io qualche volta a parlare coi suoi professori. Era stu­diosissimo ma non gli piaceva la ma­tematica, al punto che mamma era preoccupata perché il professore le aveva detto: 'Suo figlio è un disa­stro'. Poi però ha fatto il ministro delle Finanze...»Com’era da bambino?«Era molto religioso. Abita­vamo con una vecchia zia, zia Mariannina che era molto devota, e tutti i dopo pranzo andava con lei in chiesa. E co­sì è stato sempre. Una volta trovai mamma molto addo­lorata e mi disse nientemeno che Giulio le aveva detto di volersi fare prete. Aveva 20 anni. Allora gli dissi ' senti Giu’, se po’ esse bravissimi e bo­nissimi cattolici senza esse’ preti. Lo sai che mamma c’ha solo noi due...'. E difatti non si è fatto prete. Ma non so se ho fatto bene o male...» (ride di nuovo).Tra di voi c’era complicità?«C’era un grande affetto fraterno. Al­l’inizio io ho fatto un po’ da padre a Giulio. Ma quando sono stato in guer­ra in Africa è stato lui che ha fatto da padre a mio figlio. Ma, forse perché per un certo tempo avevo provvedu­to a lui, aveva come una soggezione nei miei confronti. Tanto è vero che mamma mi domandava spesso: 'Giulio ha detto che, se te serve quar­che cosa, de dijelo' . Pensi che per aiu­tarmi anche economicamente alle volte, quando veniva la domenica, al­zavamo il cuscino del sofà e trovava­mo una busta... senza dimme gnente».Che ricordo ha dei primi anni di im­pegno politico di suo fratello?«Nel 1937 Giulio era stato assunto dal­le Imposte dirette come avventizio. Moro che era presidente della Fuci gli propose di fare il direttore del gior­nale Azione fucina . Allora io gli dissi: 'Senti, io accetterei la proposta di Mo­ro, perché alle imposte che fai...'. E infatti fece il direttore, poi il presi­dente della Fuci, conobbe De Gaspe­ri, diventò suo amico e da lì... Ricor­do che quando De Gasperi telefona­va e rispondeva mamma, lui attacca­va il telefono, perché mamma co­minciava a dirgli 'gli fa fare tardi la sera, lavora troppo...'. Mamma era dolce ma nello stesso tempo forte. Ci ha tirati su da sola, con la sola pen­sione di guerra di 142 lire al mese».Ma i vostri impegni professionali si sono mai incrociati?«Una rivista una volta pubblicò la fo­to del presidente Usa Carter col fra­tello e di Giulio con me. C’era scritto: 'Questi sono i fratelli Andreotti di cui non si sente mai parlare'. Era così. Non mi sono mai intromesso nel la­voro di Giulio, anche perché quello che facevo mi piaceva molto. Affetto e rispetto. Pensi che quando abitava a via San Valentino e andava dal bar­biere a piazza San Bernardo, doveva scendere per via Veneto e fare la ro­tatoria di piazza Barberini. Avrebbe potuto tagliare ma diceva all’autista 'per carità, se no mio fratello mi fa la contravvenzione'».Ma anche lei era una personalità.«C’è stato un periodo in cui ero co­nosciuto in tutto il mondo, soprat­tutto negli Usa dove mi invitavano molto spesso. Conoscevo molto be­ne il sindaco Lindasy e una volta mi chiese come mai non riuscivamo a fi­nire la metropolitana. Io gli risposi: 'Roma è la città eterna. Se si fa pre­sto...'. A una cena offerta a Giulio, che era presidente del consiglio, Lindsay disse: 'Io sono amico di suo fratello che è capo della polizia di Roma, lei è il capo del governo. Voi siete i pa­droni d’Italia'. E Giulio quando tornò a Roma mi chiese: 'Ma senti un po’, come mai sei amico del sindaco di New York?'. Gli ho riposto che lo ero diventato andando a trovarlo. Di lui sono amico, di quello di Roma non lo so...».Ha mai avuto paura per suo fratello durante gli anni di piombo?«E diamine se ho avuto paura! Le Bri­gate rosse avevano indagato su tre po­­litici: Moro, Fanfani o Giulio. Scelse­ro Moro perché era il più facile. Per Giulio il questore chiamò anche me. E prendemmo delle misure, così nel­la strada davanti a casa sua facemmo una buca transennata per non far passare le auto. Ricordo che a Torre Argentina una volta lessi su un muro 'A morte Andreotti'».Le fece male?«Embé... (si commuove). Le Brigate rosse avevano fatto dei dossier anche su me e mio figlio, sapevano tutto: quando uscivo, dove andavo. Ma han­no lasciato perdere, forse perché non mi interessavo di politica. E non mi è mai successo niente».Giulio Andreotti è stato definito l’uo­mo dei misteri...«Come fratello con me non ha mai a­vuto misteri. Indubbiamente come uomo di governo avrà avuto la ne­cessità di avere qualche notizia riser­vata ma chiamarla mistero...»Come ha vissuto il periodo dei pro­cessi per mafia?«Ero molto addolorato. Però ho avu­to la grande soddisfazione che nes­suno mi ha parlato male. Tutti, in tut­to il mondo, mi dicevano, 'sta tran­quillo, che tanto tuo fratello non è ti­po da aver fatto quelle cose...'».E suo fratello?«Indubbiamente era preoccupato, però esteriormente quasi non si no­tava. Si è sempre fidato della giustizia anche se un po’ gliela tiravano...».In che senso?«Tra le tante cose fu accusato di es­sersi baciato con Riina. Ma mio fra­tello e anche io non siamo mai stati per i baci. Una stretta di mano, un ab­braccio, ma mai baci, neanche tra noi due. E dubito con la moglie... Quan­do c’è stata l’assoluzione definitiva, mi ha telefonato e poi è corso qui. Ci siamo abbracciati (si asciuga una la­crima...). C’era commozione, quella sì, ma baci, neanche quella volta».Cosa vorrebbe che fosse ricordato di suo fratello?«Una vicenda che non ricorda nessu­no o quasi. Mio fratello era amico di Gorbaciov, era stato in Russia a par­largli, poi era subito passato in Usa per parlare col presidente Reagan. E quello è stato il primo contatto tra i due. Ma non se ne parla».Segue la politica di oggi?«No, nun ce voglio proprio capi’ , non mi interessa. È troppo differente dal­la mia mentalità. Sarà che so’ nato e cresciuto in un’altra epoca...».Torniamo all’ultimo incontro. Per­ché parlaste di Segni?«Era il paese di papà. Giulio vi era molto attaccato ed era anche il suo collegio elettorale. Mi ricordo che nel paese tutti dicevano che lui c’era na­to. Una volta gli dissi 'a Giu’ ma tutti dicono che sei nato a Segni...'. Mi ri­spose 'lassa sta’, lassali parla’, è me­glio così che ci sono le elezioni'».