Agorà

Letteratura. Il cuore bianco e disperato dell'America

Andrea Galli martedì 16 maggio 2017

Si intitola semplicemente Elegia americana il libro di J.D. Vance pubblicato da poco da Garzanti (pagine 258, euro 18,00). Uscito un po’ in sordina, il titolo e la copertina color pastello – con l’immagine bucolica di una staccionata sullo sfondo di un campo di grano – potrebbero far pensare a una storia di famiglie americane da “Casa nella prateria”. Invece si tratta di un’elegia, sì, ma di quelle che si presentano di primo acchito come un pugno nello stomaco, come un romanzo di William Faulkner o un racconto di Flannery O’Connor. Da quasi un anno il libro staziona nella classifica dei bestseller del New York Timese, dall’estate scorsa ma ancora più dal 9 novembre 2016, è stato indicato da più parti come un testo illuminante per decifrare il successo spiazzante di Trump nella corsa alla Casa Bianca.

J.D. Vance è oggi un 32enne azzimato di simpatie repubblicane, laureato in legge a Yale, una delle fucine dell’establishment statunitense, legatosi poi a Peter Thiel, magnate della Silicon Valley: è a tutti gli effetti un rappresentante dell’élite bianca, una volta si sarebbe detta Wasp, del Paese. Solo che Vance ha radici ben diverse dalla grande maggioranza di coloro che passano per uno dei templi accademici della Ivy league, radici che affondano negli Appalachi, la fascia montuosa orientale che da Alabama e Georgia taglia la fascia orientale degli Usa fin verso lo Stato di New York. Una delle zone più povere e neglette della nazione, dove si insediarono a partire dal ’700 coloni di origine scozzese e irlandese. «Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia – scrive l’autore – i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari». Quella di Vance è la storia della sua vita, di una risalita che lo ha portato da un mondo di periferia ai gradini più alti della scala sociale e che lo ha spinto soprattutto a riflettere sui vizi e sulle sue virtù della sua gente, sul degrado che ha toccato con mano, sul razzismo culturale di cui quel popolo che ha rappresentato la spina dorsale dell’America operaia è fatto oggetto da parte dell’America liberal, cosmopolita e benestante.

Vance nasce in una famiglia originaria del Kentucky, con i nonni che nel dopoguerra si trasferiscono in una delle tante cittadine dell’Ohio industriale, Middletown. Americani che provenivano da una cultura dai tratti “arcaici”, con un attaccamento profon- do ai luoghi di origine, un altrettanto forte senso dell’onore, anche brutale, “montanari” che già sembravano un po’ alieni al proletariato bianco tradizionale del Midwest. E già segnati da tratti disfunzionali: il nonno alcolista, la nonna brillante ma instabile, dal grilletto facile, non solo metaforicamente. Quadri familiari fragili ma diventati esplosivi con la lenta deindustrializzazione iniziata negli anni ’70 e la crescente disoccupazione. La madre di Vance, infermiera, separatasi prestissimo dal primo marito, finisce in un turbine di relazioni sentimentali tempestose, che ne minano la stabilità emotiva e la fanno precipitare nella droga. L’eroina è un flagello che colpisce del resto l’intero distretto di fabbriche e miniere abbandonate. J.D. Vance cresce in un turbinio di violenze domestiche, assistenti sociali, debiti e disperazione economica. Ciò che alla fine lo salverà saranno il senso del valore dell’istruzione, trasmessogli in maniera confusa ma efficace da nonna e madre, e un desiderio di fuggire da una realtà vissuta sempre più come un ghetto. Si arruola per quattro anni nei marines, al ritorno si iscrive all’Università dell’Ohio e in ultimo, sfruttando una serie di agevolazioni per studenti poveri, riesce ad agguantare il sogno impossibile di Yale. Da uomo arrivato, nonostante la giovanissima età, e sentendosi più che un’eccezione, ha deciso di descrivere lo spezzarsi del sogno americano fra gli hillbilly e non solo. «Negli ultimi due anni – annota – William Julius Wilson, Charles Murray, Robert Putnam e Raj Chetty hanno scritto saggi convincenti e ben documentati in cui dimostrano che negli anni Settanta la mobilità sociale è crollata senza mai più risalire davvero, che alcune regioni hanno fatto molto peggio di altre (notizia sensazionale: gli Appalachi e la Rust Belt sono tra le più malmesse) e che molti dei fenomeni a cui ho assistito con i miei occhi sono comuni a tutta la società». Ancora: «Come rivelano i sondaggi, i proletari bianchi sono il gruppo sociale più pessimista d’America. Più pessimisti degli immigrati latinoamericani, molti dei quali vivono in condizioni di povertà assoluta. Più pessimisti dei neri, le cui prospettive materiali sono costantemente inferiori a quelle dei bianchi». «In certe parti del Kentucky, l’aspettativa di vita è di sessantasette anni, ossia quindici anni in meno rispetto alla vicina Virginia. Uno studio recente ha rivelato che l’aspettativa di vita dei bianchi della classe operaia, unico tra tutti i gruppi etnici degli Stati Uniti, è in calo».

La spiegazione di questa caduta Vance la fornisce lungo pagine toccanti, abrasive, vergate senza molti sconti anche a se stesso. Ma ci sono alcuni filoni che si impongono. Il primo è la dissoluzione della famiglia, con divorzi e matrimoni multipli, con l’uscio di casa che diventa una porta girevole per padri improponibili. Poi un consumismo che la povertà non frena ma trasforma in un cappio di debiti («Spendiamo tutto per poi finire all’ospizio dei poveri. Compriamo televisori giganteschi e iPad. I nostri figli indossano capi di lusso grazie alle carte di credito che applicano interessi stratosferici e ai prestiti garantiti dallo stipendio. Compriamo case di cui non abbiamo bisogno, le rifinanziamo per poter spendere altri soldi e andiamo in fallimento, lasciandole spesso piene di robaccia. Non sappiamo cosa sia la parsimonia. Spendiamo per far finta di appartenere alla classe superiore»). Quindi la perdita di disponibilità al lavoro duro, al sacrificio, l’orgoglio che si rovescia in vittimismo. Infine dinamiche da clan, che fanno sottilmente sentire traditore della propria genia chi cerca di cambiare il proprio status, di uscire da un circolo sociale vizioso. Perché «noi disprezziamo chi invidiamo». Mali che, secondo l’autore, non sono rimediabili con semplici misure di welfare, per quanto importanti e necessarie. Toccano una dimensione socio-culturale che lo Stato non riesce a raggiungere.

Un j’accuse durissimo insomma, allo stesso tempo venato da un amore insopprimibile per i propri “simili”. Un libro che ha segnato il dibattito di questi ultimi mesi, ma che non ha terminato la sua carica provocatoria. Un regista come Ron Howard ha deciso di farne un film, che potrebbe vedere la luce agli inizi del prossimo anno. Vance nel frattempo è tornato a Middletown, deciso a darsi fare, forte anche della fama acquisita, per contrastare il dilagare della droga.