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Musica. Il contrabbasso di Barre Phillips «suona la musica di oggi»

Andrea Pedrinelli martedì 15 gennaio 2019

Il musicista americano, Barre Phillips, 84 anni: è suo il primo album della storia del jazz – “Journal violone” (1968) – con unico protagonista il contrabbasso

Era il novembre di cinquant’anni fa e nelle sue intenzioni il 34enne Barre Phillips doveva improvvisare sul suo contrabbasso nella chiesa di St James’ Nordlands a Kensington, Londra, solo per fornire a un amico suoni da lavorare elettronicamente. Dopo aver suonato tre ore, però, Phillips si sentì dire che quanto fatto era troppo bello per non diventare disco, così che quaranta minuti di solo contrabbasso uscirono dall’etichetta dell’amico, Max Schubel, per entrare nella storia. Nacque infatti così, non pensato né voluto, il primissimo album nella storia del jazz con per unico protagonista uno degli strumenti più sottovalutati, a volte vituperati, eppure necessari – e non solo ritmicamente – del genere: il contrabbasso. Correva l’anno ’68 e Journal violone di Barre Phillips divenne lp lodato dai critici e ricercato dagli appassionati; tanto che nel giro di pochi mesi venne diffuso nel mondo pure con altri due titoli emblematici come il primo ( Basse Barre e Unaccompanied Barre), dando il via a una discografia anche di contrabbassisti. Oggi Barre Phillips, nato a San Francisco nel 1934, ha 84 anni e risiede in Francia; e la storia che ha iniziato vuole in qualche modo chiuderla con End to end, ennesimo e spettacolare disco di solo contrabbasso diviso in tre suite, la sperimentale Quest, la notevole Inner door e la percussiva Outer window. Nella sua lunga carriera Barre ha suonato con Don Ellis, Archie Shepp, Paul Bley, John Abercrombie ma anche in orchestra diretto da Bernstein; ha scritto per balletti e film; ha insegnato; ha ancor più dilatato le potenzialità del suo strumento fra cd solisti e l’idea di duetti (con Dave Holland) e trii di soli contrabbassisti. Nel 2014 in Provenza Barre ha infine creato il Centro Europeo per l’improvvisazione; ma tanto la migliore della sua vita rimarrà l’aver dato il la, senza saperlo, alla rivalutazione del contrabbasso: uno strumento che solo con lui cinquant’anni fa è divenuto protagonista, finalmente, anche nei dischi del jazz.

Cosa significa per lei questo disco appena uscito?

La fine di un ciclo, ma non un bilancio, e non so spiegarglielo perché suono sentimenti e non hanno nome: anche in quest’ultimo mio lavoro solista cerco di lavorare sul suono mettendovi dentro sentimenti. Però i titoli dei brani in parte rimandano alla mia biografia, alla mia continua ricerca di capire che musicista e che uomo sono tramite il contrabbasso. Questa ricerca è stata diretta solo verso me stesso e la mia anima fino ai sessant’anni, dopo l’ho aperta anche all’esterno e ora era tempo di raccontarla portandola a termine: almeno per ciò che mi riguarda.

Lei ha fatto anche studi classici: come si mescolano composizione e improvvisazione in dischi come questo?

Di solito prima di fare un disco scrivo poco: qui avevo cinque strutture già scritte da esplorare, che poi in studio con Manfred Eicher della Ecm abbiamo scelto come miscelare con le improvvisazioni fatte in modo da creare dei movimenti nelle musiche finali.

Cosa significa per lei, cinquant’anni dopo, aver inciso per primo nella storia il contrabbasso solo?

In realtà di quel giorno ricordo la gioia di esprimermi facendo un favore a un amico… Da sempre però ho cercato di lavorare perché al mio suono corrispondesse l’anima e viceversa; solo che non avevo mai pensato di far qualcosa di speciale, non lo penso neanche ora. Fui sbalordito che si volesse pubblicare quanto avevo espresso di me fra anima e suono… Da lì però per me sono iniziati cinquant’anni unici.

Forse la sua particolarità sta nel saper improvvisare partendo da evidenti riferimenti colti… O no?

Può essere. Anche se poi sono per lo più autodidatta, non ho studiato così tanto. Però in effetti nella mia natura di musicista più che il jazz ci sono chiarezza, purezza, nitore delle strutture della musica classica. Quando penso musica parto sempre da lì.

Lei saprà che il tedesco Patrick Süskind ha scritto un celebre atto unico, Il contrabbasso, che è la storia di un contrabbassista frustrato perché non ci sono mai parti per lui, nei concerti. Anche a lei è capitato?

Conosco l’opera: ma la frustrazione del protagonista dipende anche da ciò che lui vorrebbe… Io non ho mai cercato d’essere riconosciuto, di avere successo, di sentirmi “qualcuno”. Volevo e voglio soltanto suonare: e anche quando mi sono trovato dentro un’orchestra, come lui, proprio mai ho vissuto le recriminazioni del testo. A me piace, anzi, sono felice in orchestra.

Esistono brani standard per il contrabbasso jazz?

Direi di no. L’evoluzione si misura piuttosto coi nomi dei grandi: Scott LaFaro che ha aperto allo strumento la melodia, i giganti del bebop Percy Heath e George Duvivier, quel Pops Foster che per primo rese protagonista il contrabbasso in pieno Dixieland.

Che cosa cambia fra suonare il contrabbasso da solo o con altri, nel suonarlo con o senza l’archetto?

Cambiano le aree di suono, i colori che puoi osare. Ma esistono molti modi di usare l’arco, come di pizzicare le corde. Conta sempre che persona sei e che sentimento vuoi far uscire da un dato strumento. In gruppo devi essere più aperto agli altri, semmai.

Qual è la prima cosa che insegna ai suoi studenti?

Fare musica d’oggi, farne ovunque. L’educazione classica aiuta tantissimo ma è un errore suonare solo cose di ieri. Bisogna ascoltare tanto, seguire quanto si ha dentro, soprattutto suonar. Fare è decisivo.

Stanno girando un documentario su di lei: quando esce? E quando la vedremo in tour?

Il film è un processo lungo, pare, ma conto sia in arrivo. Per il tour ormai sono troppo anziano. Fino a una decina d’anni fa suonavo ogni giorno e viaggiavo: ora cerco teniture lunghe per stare fermo in una città. Ma certo qualcosa farò, lo prometto. © RIPRODUZIONE RISERVATA INTERVISTA L’84enne “inventore” della discografia solista per lo strumento jazz esce con il disco “End to end”: «È la fine di un ciclo, ma non un bilancio. Ai giovani dico: è un errore suonare solo cose di ieri. Bisogna ascoltare tanto, seguire quanto si ha dentro E soprattutto fare» Il musicista americano, Barre Phillips, 84 anni È suo il primo album della storia del jazz – “Journal violone” (1968) – con unico protagonista il contrabbasso