Agorà

INTERVISTA. Il cardinale Ravasi alla campagna di Parigi

Roberto Beretta giovedì 18 novembre 2010
Meno male che Gianfranco Ravasi non è cambiato: nemmeno adesso che è a Roma, neppure a un giorno dalla berretta cardinalizia. Anche stavolta, infatti, è riuscito a infilare una parola in greco nell’intervista: l’aggettivo mephòrios, «un composto di oros: con lo spirito aspro, però, altrimenti sarebbe metòrios»... Impagabile nella sua erudizione, compensata da un’autoironia non scontata in un «principe della Chiesa». Anche perché, appena giunto al cardinalato, Ravasi sembra tutt’altro che «arrivato»: è anzi un vulcano di idee e iniziative che nei prossimi mesi lo rimetteranno continuamente in gioco.Cardinal Ravasi... Ma che cosa direbbero i suoi amici Luigi «Lillo» Santucci e padre David Maria Turoldo a vederla così, «principe della Chiesa»?«Ah, avrebbero fatto sicuramente dell’ironia, amicale si capisce, perché nel ruolo di cardinale c’è anche un aspetto di protocollo sontuoso che avrebbe sollecitato qualche loro reazione divertita... Però entrambi sarebbero stati davvero contenti del successo dell’amico; e – come sosteneva Oscar Wilde – è difficile restare amici quando uno diventa famoso».Tutt’e due non hanno mai nascosto una certa dialettica con la gerarchia. Avrebbero interpretato la sua nomina come un positivo segnale di cambiamento nella Chiesa?«È un aspetto che può avere il suo valore. È interessante ad esempio notare come, nelle nomine di questo concistoro, sia rappresentata tutta la variegata diversità di una comunità ecclesiale che di sua natura è complessa e mutevole. Ma c’è un altro dato che rende significativa la scelta: il Pontificio Consiglio per la Cultura di per sé non domanda un cardinale alla sua testa e il fatto che invece sia avvenuto testimonia – a mio parere – che il Papa (e la Chiesa in generale) vogliono testimoniare una presenza più qualificata in tale ambito. Il quale è particolarmente complesso, delicato, e a volte ha avuto reazioni piuttosto aspre nei confronti della Chiesa e dello stesso Papa».Eppure oggi sembra di notare nel mondo degli intellettuali e della cultura più deferenza nei confronti della Chiesa. Meno ribellione, poca o nessuna contestazione. Ma c’è poi un dialogo più vero, più profondo?«Sì, è vero che questa è l’atmosfera di fondo – al di là di alcune figure che polemizzano in modo sarcastico e quasi folkloristico contro la religione. Davvero l’atmosfera è cambiata rispetto per esempio al Sessantotto. Oggi c’è però il problema di costringersi reciprocamente a discutere, confrontarci, operare su temi molto precisi e non di vaga spiritualità o di deferenza per un’istituzione antica che comunque ha una rispettabile tradizione. E qui sta il ruolo del mephòrios».Prego?«Mephòrios, ovvero "colui che sta sulla frontiera". Lo dicevo recentemente in un incontro di Curia, presente anche il Papa: considero la mia posizione in Vaticano con questo aggettivo greco, usato nella classicità per indicare il sapiente e coniato da Filone di Alessandria, un tipico ebreo che scriveva però in greco e dialogava col platonismo. L’uomo di cultura cristiano dev’essere mephòrios, cioè stare sulla frontiera, i piedi ben piantati sul proprio terreno (che è poi l’orizzonte della fede) ma continuando a guardare ciò che sta al di là. Infatti, da quando sono a questo posto, posso dire di aver aperto iniziative di frontiera».Per esempio il «Cortile dei gentili»...«Il Cortile dei gentili è il mephòrios per eccellenza, il luogo dove "i pagani" possono interloquire con i credenti. Il risultato è che non solo l’iniziativa (sono già state definite le date, il 24 e il 25 marzo prossimi) sta crescendo al di fuori da ogni nostra possibilità, ma soprattutto si sono verificate due circostanze significative. Pensavo di inaugurare il Cortile a Parigi, città emblema della laicità e del secolarismo, al Collège des Bernardins dove anche Benedetto XVI ha tenuto nel settembre 2008 un importante discorso proprio agli uomini di cultura. Invece lo faremo alla Sorbona, all’Unesco e all’Académie française: tre luoghi, tre templi della cultura che non avrei mai osato chiedere... Abbiamo già avuto adesioni entusiaste, come quelle di Julia Kristeva, Jean-Luc Marion, Daniel Bourgeois, Alain Besançon. Per di più quella sera, sul sagrato di Notre-Dame, sarà organizzato un evento spettacolare con i giovani, credenti e no. Il filosofo Fabrice Hadjadj vuol costruire un testo drammatico apposta l’occasione, poi ci saranno cantanti e attori e altro che stiamo organizzando, e alla fine una proposta suggerita dalla comunità di Taizé: dopo lo spettacolo i non credenti che vogliono vedere come i credenti pregano, passeranno oltre il "cortile" ed entreranno in Notre-Dame. Dove i monaci di frère Roger offriranno la loro proposta di contemplazione».Caspita! Sembra una Giornata dei giovani in miniatura...«La seconda novità sono i temi: vogliamo che in ognuno di questi luoghi si discuta con rigore, di argomenti non scontati o abusati, e con la prospettiva di avviare un lavoro che poi continuerà ad essere sviluppato in altre occasioni. Quali temi? La spiritualità dei non credenti; le questioni antropologiche fondamentali, come la vita e la morte e l’oltrevita, o la trascendenza e l’immanenza; la teologia come scienza; la tecnologia e l’economia considerate da un punto di vista umanistico; la teoria delle neuroscienze... Tutto a livello molto alto. Pure se in futuro non mi spiacerebbe affrontare il problema del nazional-popolare, della divulgazione tipo Michel Onfray, Piergiorgio Odifreddi (che già vorrebbe partecipare) o Christopher Hitchens».Appunto. Il suo dicastero ha appena concluso un convegno sulla comunicazione. È questo il problema della Chiesa oggi? Non tanto i contenuti, bensì il modo di arrivare alle masse?«Sì, per me questo è il problema. Anche tutti gli incidenti che abbiamo avuto recentemente in Vaticano sono legati in buona parte alla comunicazione, è fuori di dubbio. Nuovi mezzi, senza però abbandonare la grandezza della nostra eredità classica: perché quello che abbiamo alle spalle, non lo possiede nessuna tradizione religiosa al mondo!».Auspica un nuovo mecenatismo della Chiesa?«Devo dire che qualcosa del genere avviene. Pensiamo all’architettura delle chiese, dove la committenza in effetti è possibile. E uno dei campi di lavoro per il futuro è anche l’arte in quanto tale. Deve accadere quello che avveniva nel Cinquecento, quando gli artisti dialogavano e collaboravano».Lei aveva lanciato pure l’idea di un padiglione vaticano alla Biennale. Come mai non è stato fatto e che cosa avrebbe voluto metterci?Sì, volevamo essere a Venezia già nel 2011 ma non siamo riusciti, e per due ragioni. Anzitutto la Santa Sede è tutto il mondo e quindi occorre scegliere gli artisti (pochi, 7 o 8, e non necessariamente credenti) dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, oltre a un paio di europei; ne avevamo contattati alcuni, tra cui il buddhista americano Bill Viola, ma non ce l’avremmo fatta a garantire una rappresentanza davvero significativa. Seconda ragione: vorrei alzare la proposta al livello più alto possibile, mi piacerebbe instaurare un dialogo serio con l’arte contemporanea. In pratica, per la Biennale del 2013 chiederemo agli artisti di confrontarsi sui primi 11 capitoli della Genesi. So già che avremo puntato contro il mirino di tutti, quanti ci accuseranno di dar credito all’arte "degenere" e quelli che invece ci rimprovereranno una selezione troppo "religiosa"».Diciamolo tuttavia: di arte sacra si parla da decenni, ma i risultati non soddisfano nessuno. Come mai?«Abbiamo alle spalle – come disse Paolo VI nel 1964, nel famoso discorso agli artisti nella Cappella Sistina – un divorzio radicale, consumatosi soprattutto nel Novecento: da un lato una gerarchia che si è accontentata semplicemente del ricalco del passato (vedi il neoclassico, il neogotico, eccetera) o dell’artigianato; dall’altro lato l’arte contemporanea che se n’è andata per proprio conto ed è diventata autoreferenziale o provocatoria. La nostalgia del sacro è in qualche modo rimasta, però l’unico riferimento alla religione è divenuto polemico o dissacrante: vedi la rana crocifissa o altre performance del genere. Si torna sui segni sfregiandoli. Ma – senza temi alti e grandi narrazioni – anche l’arte "profana" si ritrova povera. E questo è il momento di ritessere il dialogo. Sì, ci manca dialogo, e anche coraggio».A Milano, all’Ambrosiana, lei passava serate da privilegiato contemplando in solitaria il «Codice Atlantico» di Leonardo da Vinci. Adesso a Roma quali altri capolavori può delibare?«Ho il vantaggio di essere cittadino di uno Stato che per il 70 o l’80% è costituito da musei, opere d’arte e parchi. Quindi in questo senso non ho nostalgie... Contrariamente all’impressione che forse alcuni hanno, poi, mi trovo benissimo nella Curia romana. Non ho incontrato particolari difficoltà, anzi spesso sostegno e aiuto, io stesso che pure ero venuto a Roma con qualche perplessità; e lavoro – ci tengo a dirlo – con un’équipe di grande livello, della quale sono molto contento. Vivere qui insomma è una fortuna, anche se viaggio molto per promuovere il confronto della Chiesa con le culture emergenti: Africa, Cina, Asia, culture lontanissime da quelle occidentali».Pensa di scrivere ancora sui giornali e di apparire alla televisione, anche da cardinale?«Sì, è una delle cose che spero di riuscire a continuare. Del resto, è anche nel compito di un dicastero della cultura non occuparsi solo di occasioni ufficiali, inamidate; bisogna coltivare anche un indispensabile dialogo con le persone, e una missione pastorale».A proposito: si parla talvolta di un suo passaggio alla pastorale, anzi ancor più precisamente di un ritorno a Milano. Per dirla chiara: qualcuno la vede come un altro Martini, strappato agli studi e gettato nella mischia di una grande diocesi. Non le chiedo se è vero, ma solo se accetterebbe la sfida.«Realisticamente si tratta più di un desiderio (o di un timore...) che di una possibilità concreta. La domanda in sé ha però una base di verità: la funzione di un capo dicastero è anche quella di essere uomo di Chiesa, dunque pastore, con un campo pastorale. Per questo ogni sabato e domenica, quando sono in sede, accetto incarichi in tutta la periferia di Roma. Impartisco cresime, celebro feste patronali, partecipo a processioni con tanto di banda e fuochi artificiali... E con questo ho dribblato anche la sua domanda su Milano».