Agorà

Percorsi/27. Leggere Montale come un esame di coscienza

Carlo Ossola lunedì 13 luglio 2015
Occorre leggere Montale (Genova 1896-Milano 1981) come un esame di coscienza del XX secolo: «a sommo di minuscole biche». Tutto ridotto, sin dagli Ossi di seppia, 1925, al minimo, calcolato sacrificio di ogni risonanza della poesia. Il poeta tenderà lo sguardo al limite delle parvenze: «Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco» (poesia del luglio 1923, poi in Ossi di seppia). Il miracolo insomma della poesia non è il compimento nella plenitudine, ma il lento consumarsi della crisalide, come ricorderà in un prezioso frammento di autocommento (da Monterosso, agosto 1924): «È un po’ difficile ch’io riesca a lavorare per ora; il mio genere è tutta un’attesa del miracolo, e di miracoli in questi tempi senza religione se ne vedono pochini. [...] Or m’è rimasto dei pezzi di certa crisalide che verrà fuori un giorno o l’altro...» (da Autografi di Montale. Fondo dell’Università di Pavia, Einaudi 1976). E sarà poi davvero Crisalide, posta a sigillo degli Ossi di seppia: «Ah crisalide, com’è amara questa / tortura senza nome che ci volve / e ci porta lontani - e poi non restano / neppure le nostre orme sulla polvere; / e noi andremo innanzi senza smuovere / un sasso solo della gran muraglia; / e forse tutto è fisso, tutto è scritto, / e non vedremo sorgere per via / la libertà, il miracolo, / il fatto che non era necessario!». La storia umana è dunque la muraglia del limite, di fronte al senza confine di quel fuoco primigenio che arse, origine e caos, perfetta unione che antecede il disgiunto delle forme: «Chi si ricorda più del fuoco ch’arse / impetuoso / nelle vene del mondo; - in un riposo / freddo le forme, opache, sono sparse. // Rivedrò domani le banchine / e la muraglia e l’usata strada» (Sul muro grafito). A chi ha richiamato, per queste tracce, esiti di una poetica nietzschiana, nel circolo dell’«eterno ritorno»: «M’attendo di ritornare nel tuo circolo, / s’adempia lo sbandato mio passare. [...] a te mi rendo in umiltà. Non sono / che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare, / questo, non altro, è il mio significato» (Dissipa tu se lo vuoi), è stato sovente replicato opponendo le clausole - celebrate - di una gnosi negativa, nell’orizzonte della «divina Indifferenza»: «Non domandarci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, [...] // Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»; o ancora: «Spesso il male di vivere ho incontrato»; «Il gesto indi s’annulla, / tace ogni voce, / discende alla sua foce / la vita brulla». Ma tale via negationis mira pur sempre a pervenire a quella crisalide iniziale, pronta a schiudersi, a sprigionarsi appunto: («lo schiudersi d’un’ignita / zolla che mai vedrò»): «Ciò che di me sapeste / non fu che la scialbatura, / la tonaca che riveste / la nostra umana ventura. // Ed era forse oltre il telo / l’azzurro tranquillo, / vietava il limpido cielo / solo un sigillo». Scialbatura, tonaca, intonaco, ancora crisalide e muro, ma anche veste di una vocazione paolina che sente, sotto la "scorza" terrena, gemere «la vera mia sostanza» demandata all’ultimo Sigillo. Incalza una sorta di ascesi che riguarda la vita e la poesia (dirà più tardi: «Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale / ... / Altri libri occorrevano / a me, non la tua pagina rombante» - da Mediterraneo). Gli Ossi di seppia usciranno nel 1925 per le edizioni di Piero Gobetti: l’incontro fu quello di un sodalizio intellettuale, una scelta di campo, subito ribadita con la firma di Montale al "Manifesto degli Intellettuali Antifascisti". Nello stesso anno su "L’Esame" pubblica l’Omaggio a Italo Svevo: è una sorta di linea europea della cultura italiana, e insieme un primo indizio di tenace resistenza (Gobetti muore l’anno dopo a Parigi) alle parole d’ordine fascista; una linea vissuta dai margini: Genova e Trieste, Svevo e Saba, e di qui Sbarbaro e Montale. E Montale, poeta degli Ossi rimarrà per generazioni ; molto più che non le Occasioni, 1939: «Un libro come quello che Lei mi propone presupporrebbe una chiarezza critica che io, per ora, non ho in materia. Siccome non ho cessato di far versi (pochi), ho bisogno piuttosto di oscurità interiore che di autocoscienza» (Il carteggio Einaudi-Montale per Le occasioni, Einaudi 1988). Ma il "vento grande" montaliano torna a partire da Ballata scritta in una clinica, edita in "Il Ponte" nell’agosto 1945, che inaugura un’aria nuova di liberazione, di intenti. Il ricordo della guerra si fissa in biblica immagine («ma buio, per noi, e terrore / e crolli di altane e di ponti / su noi come Giona sepolti / nel ventre della balena»), quale negli stessi mesi aveva composto Dietrich Bonhoeffer, nel suo testamento in versi dai campi di sterminio: «Così imploravano. E Giona allora: "Sono io! / Io ho peccato dinanzi a Dio. La mia vita è perversa. /...// L’uomo pio non deve perire col peccatore!" / Essi tremavano. Ma poi, con mani dure / precipitarono il colpevole, e il mare si quietò» (Giona, Tegel 1944). Solitudini e riconoscimento, alienazione e kairós dell’epoca presente trovano in Satura una voce meditante. Si ricordi, del dicembre 1968, Tempo e tempi: «Non c’è un unico tempo: ci sono nastri / che paralleli slittano / spesso in senso contrario e raramente / s’intersecano. È quando si palesa / la sola verità che, disvelata, / viene subito espunta da chi sorveglia / i congegni e gli scambi. E si ripiomba / poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo / solo i pochi viventi si sono riconosciuti / per dirsi addio, non arrivederci». Il Montale ultimo addita questi pochi viventi, «deità in fustagno e tascapane» (Divinità in incognito), «angelo di carbone che ti ripari / dentro lo scialle della caldarrostaia» (L’angelo nero), e fa propria una teologia della kenosis che in Laggiù si manifesta, cosmica profezia, visionario congedo da un secolo che si volle prometeico: «La terra sarà sorvegliata / da piattaforme astrali //.../ Spariranno profeti e profezie / se mai ne furono // Scomparsi l’io il tu il noi il voi / dall’uso // Dire nascita morte inizio fine / sarà tutt’uno //...// Il Creatore avrà poco da fare / se n’ebbe // I santi poi bisognerà cercarli tra i cani //... // Gli angeli resteranno inespungibili / refusi». Nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura, nel 1977 pubblica il Quaderno di quattro anni; nell’attività fervida dell’ultimo decennio, il Diario del ’71 e del ’72 rimane, stoico agone di Attesa e di prova: «Sono pronto ripeto, ma pronto a che? / Non alla morte cui non credo né / al brulichio d’automi che si chiama la vita. / .../ Essere pronti non vuol dire scegliere / tra due sventure o due venture oppure / tra il tutto e il nulla. È dire io l’ho provato, / ecco il Velo, se inganna non si lacera» (Sono pronto ripeto...).