Agorà

I giochi di Gros: "Più politica che sci"

Massimiliano Castellani giovedì 16 gennaio 2014

​Immagini in bianco e nero, Olimpiadi invernali del 1976, Alfredo Pigna al microfono, in diretta da Innsbruck: «La medaglia d’oro nello slalom speciale se la aggiudica il nostro Pierino Gros...». Formidabili quegli anni per lo sci italiano, con Pierino la “peste delle nevi” - allora 22enne -, colonna portante di una Valanga Azzurra forse irripetibile, rievocata pochi giorni fa per il quarantennale (7 gennaio 1974) dell’impresa record di Berchtesgaden: cinque italiani (nell’ordine: Gros, Thoeni, Stricker, Schmalzl e Pietrogiovanna) ai primi cinque posti nello slalom gigante bavarese. Momenti di gloria che suscitano un’immensa nostalgia, specie alla vigilia di una Olimpiade invernale come quella di Sochi (inizia il 7 febbraio) che sembra destare scarso interesse, specie dal punto di vista sportivo.Come se lo spiega Gros questo “congelamento” da parte dell’opinione pubblica?«Duemila anni fa in Grecia, in prossimità delle Olimpiadi si sospendevano anche le guerre, adesso invece pare che tutti vogliano alimentarle prima di un evento di portata planetaria come quello russo. Purtroppo la politica ha invaso lo sport che è diventato piccola cosa rispetto al gigantismo degli interessi economici e dei giochi di potere che ruotano attorno a queste Olimpiadi fortemente volute da Putin».Putin però non scende in pista con una pettorina come la sua ai tempi d’oro.«Infatti i media invece di parlare solo di terroristi, di Giochi blindati, di scorte armate e di prigioni, dovrebbero interessarsi di più ai veri protagonisti che, nonostante tutto, rimangono solo gli atleti».La Rai non può neanche “parlarne” (i Giochi si vedono su “Cielo”) e il suo ex compagno di squadra, Paolo De Chiesa, ha lanciato un appello su Facebook raccolto da migliaia di tifosi solidali.«Comprendo lo scoramento di De Chiesa che è stato un ottimo sciatore e ora un bravissimo commentatore. Ma questo, il commercio selvaggio dei diritti tv, è lo specchio dei tempi. Io andrò a Sochi per la tv svizzera, la quale come molte emittenti pubbliche ha ridotto notevolmente le dirette dello sci. Spesso facciamo telecronache da studio e del resto con Internet la gente ormai guarda le gare dal pc e rinuncia al commento, anche quando è competente e appassionato».Sembra passato un secolo dalla grande speranza dei Giochi invernali di Torino 2006...«Quella rimane un’edizione fantastica, a prescindere dal fatto che giocavamo in casa. Un’avventura che per me era cominciata molto prima del 2006 facendo formazione e promozione nelle scuole, andando in giro ad arruolare ragazzi per il grande “esercito” dei volontari. Finiti i Giochi, qui da noi, come sempre, si sprecano le risorse e si dilapida il patrimonio che è fatto dagli atleti ancora in pista, ma anche di quelli di ieri come il sottoscritto, Thoeni e gli altri, che se permettete hanno fatto la storia di questo sport e meriterebbero un maggiore coinvolgimento. E invece niente, neanche se ti impegni a lavorare gratis...».Dal 2006 a oggi il movimento invece di crescere sta regredendo, perché?«Per un motivo semplicissimo: fare sci è troppo costoso e solo pochi se lo possono permettere. Se vuoi far fare agonistica a tuo figlio devi essere pronto a sborsare 3-4mila euro l’anno che vanno in attrezzatura, corsi e iscrizioni alle gare. Lo Stato dovrebbe rinunciare a qualcosa per permettere alle famiglie di tornare a sciare: un giornaliero costa in media 40 euro a persona, fate voi i conti...».È per questi motivi che non si vede all’orizzonte una nuova Valanga Azzurra?«Lo sci è cambiato ed è andato avanti in altri paesi, noi invece siamo fermi ad Alberto Tomba che si allenava come e quando voleva lui e con il suo staff. Alberto non è mai strato parte integrante di una squadra. Il nostro invece era un gruppo di 10-12 persone che sciavano e vivevano assieme. Se questo sport non avesse la Nazionale non solo non esisterebbe più, ma non avrebbe neppure senso organizzare le Olimpiadi invernali».Come si esce da questa pista nerissima?«Investendo su questo sport, consapevoli che al tempo stesso si sta puntando anche sul turismo alpino che rappresenta il 3,5% del Pil nazionale. In un paesino come il mio, Sauze d’Oulx (Torino) siamo 900 abitanti, ma durante la stagione invernale c’è lavoro per 3-4mila persone. Nello sci club locale, di cui sono presidente, abbiamo 14 allenatori assunti che si occupano di far crescere un centinaio di ragazzi, ma mancano i soldi e gli impianti per permettere di farne sciare altri trecento».Siamo alle solite, pochi impianti, carenza di tecnici, zero fondi.«Io sono un combattente nato e non mi piango mai addosso, ma la realtà in Italia è questa. Dallo sci alle piccole federazioni degli sport invernali, non si riesce a dare agli atleti la dignità di campare allenandosi e gareggiando, magari con un minimo di 500 euro al mese. Un tecnico federale prende 50mila euro lordi a stagione e dall’alba al tramonto gli tocca pure montare i paletti del tracciato... Perciò oggi chi ha voglia di sgobbare con 20 gradi sotto zero, sottopagato e sottostimato, sapendo che se anche entri tra i primi trenta del mondo poi magari non arrivi neppure a Sochi?».Perché c’è anche questo rischio? «Sicuro. Grazie alle bravate del Cio, l’Italia in Olimpiadi ha 11 posti a disposizione per lo sci. Così uno come Razzoli che in gara si piazza tra i primi venti del mondo è possibile che resti fuori. E questo vale per tanti atleti di altre nazioni».Un pronostico: con quante medaglie torneranno gli azzurri da Sochi?«Con tre possiamo stare contenti, dalla quarta in poi sarebbe un mezzo miracolo. Nella discesa sono da podio Fill, Innerhofer e Paris, poi c’è Moelgg nel gigante, tutti gli altri partono da outsider. Per le donne speriamo nelle Fanchini e nella Brignone. Vincere è importante, ma un cambio di cultura varrebbe molto di più di qualche medaglia a sorpresa».