Agorà

Cinepallone. I dolori del giovane Ibra, prima di diventare Zlatan il terribile

Massimiliano Castellani venerdì 5 novembre 2021

Lukaku versus Ibrahimovic

Il campione svedese va in gol anche al cinema con il film diretto da Sjogren che ripercorre l’infanzia povera e difficile del talento cresciuto nel ghetto di Rosengård Vedendo il film Tigers, diretto da Ronnie Sandahl – lo sceneggiatore di Borg McEnroe –, il pensiero va inevitabilmente a un confronto diretto: a quanto la parabola rapidissima, e quasi tragica, di Martin Bengtsson abbia seguito una direzione ostinatamente contraria a quella infinita, ed esplosiva, del suo connazionale, Zlatan Ibrahimovic. Anche Bengtsson era partito come Ibra dalla Svezia, a 18 anni, nel 2003, con le “stimmate” del predestinato a diventare un campione del calcio internazionale. Dal piccolo club dell’Orebro, Martin sarebbe potuto andare all’Ajax che in quel preciso momento stava lanciando il genio ribelle Ibrahimovic, o al Chelsea di Claudio Ranieri, ma scelse l’Inter di Massimo Moratti.

E quello che poi è accaduto a Bengtsson nei nove mesi di permanenza in nerazzurro è diventato il testo di uno psicodramma che ha raccontato nel libro – uscito in Svezia – Nell’ombra di San Siro. Una odissea giovanile in cui gli avversari da sconfiggere si chiamavano droga, alcol, dipendenza sessuale, crisi d’identità. Un tentato suicidio – tagliandosi le vene sotto la doccia – a cui seguì il ricovero nel reparto psichiatria di un ospedale milanese chiusero anticipatamente la sua sfida personale contro l’eldorado calcistico. Martin, il centrocampista fragile a 19 anni ha detto addio al pallone e si è dato alla scrittura e la fotografia.

“Zlatan il terribile” invece, a 40 anni – compiuti il 3 ottobre – non ha nessuna voglia di appendere gli scarpini, perché il calcio per lui, da sempre, è tutto. Dopo i tentativi un po’ goffi di biopic da grande schermo sulla vita e le gesta in campo di campioni del calibro di Francesco Totti e Roberto Baggio, la storia e i dolori del giovane Ibra nel film Zlatan diretto da Jens Sjogren – prodotto dalla sempre attenta Lucky Red di Andrea Occhipinti – , merita assolutamente una serata al cinema (dopo l’anteprima di ieri all’Anteo di Milano, esce nelle sale l’11 novembre). Rispetto alle ultime pellicole realizzate sui campioni del calcio, questa vince nettamente, perché ha una sceneggiatura solida e credibile, firmata da Jakob Beckman e soprattutto da David Lagercrantz, il biografo nominato sul campo dallo stesso fuoriclasse svedese con il quale aveva pubblicato il bestseller – tradotto in trenta lingue – Io, Ibra (Rizzoli). Zlatan è un lungometraggio che rende merito alla lunga e mirabolante carriera di questo duro dal cuore tenero, figlio di migranti slavi nella fredda e assai poco rassicurante Malmö.

Ibra nasce e cre-sce ai bordi di periferia, nel ghetto di Rosengård, dal quale pur di evadere in fretta impara presto a prendere il mondo a “testate”. «Quando vieni dal nulla devi lottare per tutto», è il mantra che lo accompagna dalla sua prima partita nella squadretta dei figli dei rifugiati dalla guerra della ex Jugoslavia, il Balkan. Il talento è sempre umile, ma non quello degli uomini eternamente in rivolta come Zlatan. Quelli che non accettano le imposizioni, e da bambino per questo Ibra era stato classificato come «difficile», per via di una scarsa propensione al rispetto delle regole e dell’autorità. Il giovane Zlatan, ben interpretato dai due attori Dominic Bajraktari Andersson (dagli 11-13 anni) e Granit Rushiti (17-23 anni), rifiuta l’idea della panchina che è metafora del fallimento e di una guerra persa in partenza. Il film tratteggia in modo mirabile le inquietudini di questo Holden del pallone, segnato da un’infanzia agra. Famiglia spaccata da una separazione dei genitori, gli Ibrahimovic erano marcati a uomo dalla polizia e dai servizi sociali. Il padre, Šefik è un muratore bosgnacco, originario di Bijeljina (nell’allora repubblica federata di Bosnia ed Erzegovina) che gli ha insegnato a diffidare del prossimo. «Che cosa hai da guardare?», è la domanda che Ibra rivolge a chiunque lo fissi un istante più del lecito.

La madre, Jurka Gravic, è una croata di religione cattolica, che per mandare avanti la baracca lavora da donna delle pulizie. In Zlatan si vedono solo due dei suoi cinque fratelli: Sapko, morto nel 2014 per leucemia, a 41 anni e la sorella Sanela. Mancano all’appello il fratello Aleksander e le altre due sorelle, Monika e Violeta. Non manca affatto invece quel senso di precarietà che rende il piccolo Ibra un “egoista”: tiene sempre tra i piedi e non lo passa l’unico tesoro che ha ricevuto in dono dal cielo, il pallone. Il suo è stato un dribbling costante per saltare la povertà, la fame (è un ragazzino magrissimo e quasi denutrito) le risse dei bulli di quartiere. Zlatan ruba ciò che non può avere, a cominciare dalle biciclette, compresa quella del mister del Malmö. Zlatan nasce con il ghigno irriverente e violento alla Zanardi il personaggio disegnato dalla matita geniale di Andrea Pazienza. Zlatan è consapevole delle sue doti tecniche e dello strapotere di un fisico forgiato prima che con il calcio dal taekwondo. L’arte marziale, di cui è cintura nera, gli garantisce, ancora oggi, numeri acrobatici che lo portano ad elevarsi fin dove i difensori avversari non possono arrivare. Ibra si sente un dio, perché è stato più di una stagione all’inferno e ne è uscito fuori. E di quelle annate incendiarie e tenebrose gli è rimasto il senso della rivalsa e il gusto irriverente di chi ha riscattato se stesso e in parte una comunità svantaggiata e al margine.

La sua filosofia poggia da sempre sul «me ne frego di quello che pensa la gente, non sono mai stato a mio agio fra i tipi perbenino». Dalle sconfitte e i rifiuti ha costruito una corazza d’acciaio che gli ha fatto scivolare addosso sui muscoli scolpiti e tatuati anche l’insulto razzista di «zingaro» dalle Curve di mezzo mondo. Ha reagito da bomber, ispirato dal suo idolo, il “Fenomeno” Ronaldo di cui imita, da sempre, anche l’esultanza a braccia aperte. Zlatan-gol è andato in rete 505 volte nelle 802 partite disputate con le sette grandi sorelle d’Europa in cui ha militato (Ajax, Juventus, Manchester United, Barcellona, Psg, Milan, Inter), vincendo tutto, tranne la Champions, la “maledizione” di Ibra. A portarlo da noi è stato il suo procuratore, il “pizzaiolo di Amsterdam” Mino Raiola che nel film si presenta come «l’anti-Moggi», ma riuscì comunque a piazzarlo alla Juventus (per 16 milioni), club che forse Ibra non avrebbe mai lasciato se, nel-l’estate del 2006, non fosse scoppiato lo scandalo di “Calciopoli” con lo scudetto vinto e poi revocato e la storica retrocessione in B dei bianconeri. Nella settimana che porta al derby della Madonnina (domenica sera) giova ricordare che Ibrahimovic ha fatto soprattutto le fortune dell’Inter e del Milan: 4 scudetti con in nerazzurri e uno, l’ultimo, dei rossoneri con Max Allegri in panchina.

E nel Milan dei “giovani” di Paolo Maldini – smise anche lui da ultraquarantenne – , Zlatan è voluto tornare dopo un anno di esilio dorato nel soccer americano, ai Los Angeles Galaxy. Il 17 ottobre 2020, nel primo derby a San Siro da “rimpatriato” milanista, Ibra segnò una doppietta all’Inter e gelò i tifosi nerazzurri e tutti quelli che ormai lo davano per «finito». Da allora, tra infortuni e qualche testata, come quella rifilata all’ex interista Lukaku in Coppa Italia, che ha ispirato un murales a San Siro, pur con gli acciacchi dell’età Ibra continua a tener botta a ragazzi che hanno la metà dei suoi anni. Lo fa puntando su una tenacia e una tecnica che non regge il confronto con nessuno. Ibra ha riportato i rossoneri in Champions, è la grande anima di questo Milan capolista – assieme al Napoli – , e grazie alle prestazioni da cuore impavido è tornato, dopo quattro anni, ad essere convocato dal ct della nazionale svedese Janne Andersson che entusiasta annuncia: «Avere Zlatan di nuovo con noi è semplicemente fantastico». Il sogno del Mondiale in Qatar nel 2022 e un rinnovo con il Milan fino a giugno 2023 sono alla portata di un uomo per cui nulla è impossibile, perché ha scolpita nel cuore la legge di Rosengård: «Si può togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo».