Agorà

STORIE DI CUOIO. «Ho sfidato il Sahara, ora chiedo di giocare»

Massimiliano Castellani giovedì 23 settembre 2010
Una telefonata di un amico e la passione per il calcio, a volte possono salvare la vita. Questo Kalapapa “Kalas” Ngeri lo sa bene. Kalas ora corre libero sulla fascia. Poi si ferma, e cammina ondeggiando, come una barca sul Lago Trasimeno. Ha il passo dinoccolato e da lontano lo confonderesti facilmente con il suo “sosia” più famoso, l’amato Mario Balotelli. Poco più in là, sulla collina sopra al Trasimeno, a Castiglion del Lago, è nato l’attaccante della Roma Stefano Okaka, origini nigeriane, come Kalas. Ma Kalas non lo conosce ancora. Nella sua testa mille pensieri e i ricordi di una fuga forzata dal suo Paese. Tre anni fa l’addio alla famiglia, «ho 21 fratelli», e a Port Harcourt, la città dove era nato e cresciuto anche come calciatore. Era già diventato l’idolo dei ragazzi della metropoli tra il delta del Niger e l’Oceano, la stella del Soccer Plannance. Ma sopra alla testa del due volte capocannoniere della Terza divisione nigeriana, un giorno invece di un pallone si stava per scagliare la condanna senza appello della polizia, a causa della sua appartenenza al Massob: il Movimento sorto nel 1999 per l’attuazione della sovranità dello Stato di Biafra. Una macchia in più, oltre a quella di essere un membro orgoglioso della comunità igbo (rappresenta il 18% della popolazione nigeriana, nel 1969 subirono un genocidio: oltre un milione di morti) e per di più cristiano. «Gli awousa, i gruppi di fanatici islamici del nord, sequestravano i cristiani: donne, vecchi, bambini per loro non faceva alcuna differenza, li prendevano e li massacravano a colpi di machete», racconta con orrore Kalas salvato da quella chiamata amica. «Scappa Kalas, non tornare a casa, la polizia ti sta cercando», gli urlò allarmato l’amico Jackson al telefonino. E il giovane bomber, con tutta la paura in corpo e appena 700 naria in tasca (circa 50 dollari) cominciò la sua odissea, destinazione: Italia. Fine dell’adolescenza serena e scanzonata di un ragazzo che a 13 anni aveva già le stimate del campione e il governo su di lui aveva puntato per inserirlo nella selezione di atletica dei Giochi di Pechino 2008. Quell’anno olimpico, il giovane igbo invece era nel pieno della sua fuga, marchiato e marcato stretto da quello stesso governo come pericoloso terrorista del Massob. Una svista colossale che nessun arbitro, neppure il peggiore, avrebbe mai presa nei confronti di un ragazzo dallo sguardo pacifico, finito a correre da un campo di calcio dentro a un tunnel oscuro, in cui sembrava impossibile solo prevedere la meta finale. «Con il terrore in gola, senza dormire né mangiare arrivai a Kano e poi a Sokoto dove risiede la maggioranza islamica dei nigeriani». Con approdi di fortuna raggiunse Agadez (in Niger) in cui avvenne l’incontro con il “losco” Johnson, con il quale decise di condividere una sfida quasi impossibile: attraversare il Sahara in cammello per raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi verso l’Italia. Un vecchio detto tuareg recita: «Dio ha creato i Paesi ricchi d’acqua perché gli uomini ci vivano, i deserti perché vi trovino la propria anima», ma lì Kalas stava per trovare il «niente» (il significato di Sahara in arabo), il vuoto gelido della morte. «Sono stato 28 giorni nel Sahara. Ho patito le pene dell’inferno, la fame, la sete, la solitudine. L’unico conforto era la presenza di Gesù e la preghiera a Dio. Senza il Suo aiuto non ce l’avrei mai fatta».Un giorno, i due cammelli che li trasportavano stramazzarono al suolo e lì nel grande «cimitero di sabbia», si è arrestato per sempre anche il cammino di Johnson, finito insieme alle carcasse di centinaia di clandestini in fuga. Kalas era rimasto solo. Di notte scriveva testi di canzoni hip-hop in cui si chiedeva disperato: «Tutti credono in Dio, e allora perché ognuno tenta di uccidere, di sopraffare l’altro fino all’autodistruzione?». Sfinito, braccato, rimasto solo al margine estremo del Sahara, la resa era vicina. Perse i sensi e al risveglio come per miracolo si ritrovò nel letto di una fattoria di Moustafa, a Sebha, Libia. «Ero uno scheletro, avevo perso trenta chili, io di solito peso sui 90. Sono rimasto un anno alla fattoria, lavorando e insegnando a giocare a calcio ai figli di Moustafa. Ma tutto di nascosto, perché le nuove leggi di Gheddafi contro i clandestini avrebbero creato problemi a me e anche a Moustafa che un giorno mi ha fatto accompagnare al porto di Tripoli e da lì a bordo di un barcone sono sbarcato a Lampedusa».Qui per Kalas comincia una storia drammatica e simile a tante altre vite clandestine, passando per il Centro di accoglienza di Crotone. «Rimasi a Crotone quasi 5 mesi. Poi un giorno ho telefonato a casa e i miei fratelli mi hanno detto che nostra madre era morta… Mi sentivo un sacco vuoto, come se la mia vita ormai non avesse più un senso. Mi hanno pagato il biglietto del treno e sono andato a Roma. Ho dormito due notti alla Stazione Termini, come un barbone, poi mi sono rivolto alla Caritas ed è stata la mia salvezza».Da Todi a Tuoro, accolto come un figlio da tutto il paese, soprattutto da Alma, la vedova del poliziotto Emanuele Petri - ucciso nel 2003 in un conflitto a fuoco dalle nuove Br - . «Io vivo in un alloggio al Centro Petri e Alma è diventata la mia seconda mamma», dice Kalas davanti a questa donna straordinaria e al suo fido «fratello», il vicesindaco di Tuoro, Lorenzo Borgia che è anche il suo primo tifoso. «Chi ha visto Kalas giocare è rimasto impressionato, ha un altro passo rispetto alla Seconda categoria in cui milita il Tuoro, ma purtroppo per la Figc non può giocare, per tutte le beghe burocratiche legate al suo status di rifugiato politico». Il mister del Tuoro, Maurizio Valentini, non vede l’ora di averlo a disposizione per le partite di campionato: «Nei test di velocità è arrivato primo – dice entusiasta Valentini – . Kalas è un talento, un classe ’90 così in queste categorie se lo sognano. Ma se non gioca…». Kalas è fermo al palo e ci sta male. La Lega Nazionale Dilettanti lo scorso anno gli permise di giocare le ultime due partite di campionato grazie al fatto che poteva dimostrare un anno di residenza in Italia. «Siamo alle solite – sbotta il presidente del Tuoro, Mario Agnelli – . Per la Federcalcio Kalas è un tesserato già dal marzo scorso, per la Lega Nazionale Dilettanti no, perché non ha un lavoro fisso e l’iscrizione scolastica, che peraltro andrebbe richiesta alla Nigeria e dubito che l’accoglierebbero dato il suo status di rifugiato. Nella nostra piccola comunità la sua storia sta diventando un caso sociale e politico, mentre invece si dovrebbe parlare di Kalas solo in termini sportivi e quindi mi appello anche agli altri club, specie quelli professionistici, se ci vengono in soccorso per sbloccare una situazione che sta diventando paradossale».Kalas calcia il pallone lontano e sbotta: «Perché non mi vogliono dare questa opportunità? Giocando a calcio potrei costruirmi un futuro e garantirlo anche a mia sorella Glory che vorrebbe venire in Italia a studiare». Si interrompe un istante Kalas, ha un groppo in gola, poi torna il sorriso. Raccoglie in terra la borsa del Tuoro, l’allenamento per oggi è finito, ma l’ultimo tiro spetta a lui: «Chiedo solo di giocare, qualsiasi cosa c’è da fare sono disposto a farla. Ho attraversato il deserto, posso andare a piedi ovunque…».