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Cinema. Heimat, quei tedeschi che emigravano

Alessandra De Luca martedì 17 marzo 2015
Un film dedicato a tutti coloro che inseguono i propri sogni, agli uomini e alle donne capaci di liberarsi dalle costrizioni apparentemente imposte dal destino e modellare la propria vita sulle proprie utopie. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2013 e distribuito nella sale da Ripley’s Film, Viggo e Nexo per due giorni, 31 marzo e 1 aprile, L’altra Heimat – Cronaca di un sogno di Hedgar Reitz prosegue il racconto della celebre trilogia cominciata dal regista tedesco nel 1984. E lo fa con un prequel, anticipando i fatti che in Heimat, Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza e Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale, si svolgono da 1919 al 2000. Alle 56 ore già realizzate in 25 anni, si aggiungono altri 230 minuti per riportarci al 1842, alla stessa famiglia Simon dalla quale discenderanno i protagonisti della trilogia. Siamo sempre nel villaggio di Schabbach, nella regione dell’Hunsrück, dove Reitz è nato nel 1932. Qui vivono il fabbro Johann, la moglie Margaret, la figlia maggiore Lena, allontanata da casa perché ha sposato un cattolico (i Simon sono protestanti), i figli Gustav e Jakob. Quest’ultimo (interpretato dal non professionista Jan Dieter Schneider, studente di medicina all’Università di Magonza), proprio negli anni in cui migliaia di tedeschi, oppressi da povertà, carestie e governi dispotici emigrano in Sudamerica, sogna si partire per il Brasile, studia la lingua, usi e costumi degli indios dell’Amazzonia, divora libri che gli spalancano le porte di mondi nuovi, con le loro promesse di cambiamento e libertà. Ma il ritorno di suo fratello Gustav dal servizio militare presso l’esercito prussiano cambierà molte cose in famiglia. Il progetto di questo nuovo film risale al 2007, quando il regista decise di affrontare un tema al quale gli studiosi hanno dedicato poca attenzione: l’emigrazione dalla Germania della metà del XIX secolo della prima generazione di contadini alfabetizzati. Una pagina di storia sconosciuta alla maggior parte dei tedeschi per il quali il proprio paese è invece il rifugio di immigrati provenienti da Africa, Asia e Medio Oriente. Ma un tempo anche nella nazione oggi leader in Europa la gente era costretta a cercare fortuna altrove, abbandonando affetti e luoghi natii. Quelli a cui fa riferimento la parola heimat, intraducibile nelle lingue neolatine, che rimanda non solo al concetto di patria e casa, ma anche ai luoghi della propria infanzia che colleghiamo alle nostre origini, alla nostra identità e al senso di nostalgia per la perdita di questa appartenenza. «Studiando quel periodo storico – racconta il regista – mi sono accorto che le cause di quella migrazione non furono la fame, la miseria o la mancanza di libertà, bensì il diffondersi di un’idea nuova e rivoluzionaria, quella secondo la quale ognuno ha diritto alla propria felicità. Il livello medio di istruzione si era molto innalzato nelle campagne, anche i contadini avevano appreso nozioni di storia e geografia, erano sempre più consapevoli di tutto ciò che mancava loro nel proprio paese ed erano influenzati da un clima intellettuale nuovo, romantico, che li spinse a una vera e propria ondata migratoria. Sono convinto che la conoscenza fosse molto alimentata dalla lettura di racconti su luoghi e popoli lontani intorno ai quali le persone costruirono il proprio immaginario. È quello che accade al nostro Jacob, deciso a partire per il Brasile, che all’epoca reclutava artigiani specializzati in Europa». Ancora una volta Reitz compie uno straordinario lavoro nel mettere in scena le vite degli altri, cercando un atteggiamento mai scontato nei confronti di ciò che mostra, con una semplicità e una naturalezza frutto di decenni di minuzioso lavoro su scenografie, costumi, recitazione, fotografia, montaggio. Girato in un bianco e nero al quale le moderne cineprese regalano una qualità tridimensionale, il film include inserti di colore riservato a fiori, piante, sangue, fuoco, riflessi luminosi e denaro. «Sono 40 anni che tento di mescolare colore, bianco e nero, per continuare la grande tradizione cinematografica di registi come Rossellini e Olmi, degli espressionisti, dei maestri russi e americani, senza rinunciare però alle risorse cromatiche». Lo sguardo del regista, refrattario a facili e banali drammatizzazioni, è costantemente alla ricerca della verità della vita, capace di metabolizzare saggiamente contraddizioni e violenze. Il regista ce la restituisce in forma epica, mescolando storia individuale ed eventi storici. E la verità per Reitz risiede nell’anima delle persone e delle cose. «Nel film i personaggi hanno una loro vita religiosa, vanno in chiesa, rispettano le feste tradizionali, ma gli elementi più metafisici della storia mi piace cercarli altrove. Mi accorgo, anche durante le riprese, che la natura spirituale degli esseri umani, ma anche degli oggetti, diventa visibile sotto la superficie che si fa traslucida. E attraverso questa trasparenza ci appare il Vero».