Agorà

REPORTAGE. Haiti, la ricostruzione fantasma

domenica 1 luglio 2012
Impalpabili. Eppure, nascoste dal bianco accecante delle nuvole, le chiazze grigie restano in agguato. A occhio nudo non si notano. «Però si sentono, l’aria diventa più spessa, umida», aggiunge Napoleon, un’autorità in materia. Nei suoi settant’anni ha visto centinaia di siklonn, così gli haitiani chiamano i cicloni che flagellano la parte più occidentale dell’isola di Hispaniola. Quella dove, nel 1804, un gruppo di schiavi ribelli fondò la Repubblica di Haiti. Duecentootto anni dopo la prima colonia indipendente della storia è lo Stato più povero dell’Occidente. Un record di cui gli haitiani farebbero volentieri a meno. Ma che tuttora pesa sulle loro spalle come un macigno. Molti, dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010 in cui morirono 230mila persone, si illusero che il mondo finalmente si accorgesse di loro. «Ricostruiremo il Paese dalle sue macerie», aveva detto enfaticamente l’ex presidente Usa, Bill Clinton, ora inviato speciale dell’Onu per l’isola. Le macerie, però, trenta mesi dopo affollano ancora le strade perennemente dissestate della capitale, Port-au-Prince. Insieme ai cocci di vetro e pezzi di intonaco della mega-torre progettata dalla Fondazione Clinton nel quartiere residenziale di Petionville. A ridurre in frammenti le finestre del sontuoso edificio – ancora in costruzione – è stato lunedì scorso un migliaio di haitiani di Jalousie, la collina-baraccopoli dietro Petionville. Lo slum è stato distrutto dal terremoto. I sopravvissuti si sono sistemati in accampamenti di fortuna. Pezzi di stoffe trasformati in tende, qualche latrina comune, i più fortunati hanno creato nuove baracche con assi di legno. E lì vivono. Ancora per poco, però. Perché la stagione dei siklonn è ormai alle porte. «C’è elettricità in cielo», afferma Napoleon. E il governo del presidente Michel Martelly ha deciso di sgomberare l’area nel timore che le piogge la facciano franare. «È questione di sicurezza», ha dichiarato il ministro dell’Ambiente Pierre Andre Gedeon. Gli abitanti di Jalousie, però, non gli credono: «Vogliono cacciarci per vendere le terre ai privati». Il problema, in realtà, è complesso. Tuttora, due anni e mezzo dopo il sisma, tra 460 e 680mila persone vivono nei campi per sfollati. Alcune tendopoli sono costruite in aree pubbliche, altre in terreni privati. «Col passare del tempo, il livello di tolleranza dei proprietari è diminuito e ne reclamano la restituzione», spiega Piero Brunod, responsabile dei progetti haitiani per l’Ong Coopi. Anche perché quei lotti possono essere rivenduti su un mercato immobiliare in cui i prezzi lievitano. «Gli sgomberi si sono fatti via via più frequenti. Solo a Tabarre ce ne sono stati quattro, per un totale di duemila persone», aggiunge Brunot. «Certo, l’anarchia delle costruzioni è un grave problema, per il rischio ambientale e per le condizioni igieniche – afferma Fiammetta Cappellini, responsabile dell’Ong Avsi a Port-au-Prince –. Tuttavia va anche tenuta presente la necessita delle persone a essere informate e rese partecipi delle decisioni che le riguardano. Questo popolo deve poter prendere in mano il proprio destino». Qualche volta accade, come dimostra Atelier Soleil, costruito proprio da Avsi a Cité Soleil. L’Ong ha trasformato un edificio pericolante in un laboratorio artigianale dove sette persone producono e vendono borse e coi guadagni riescono ad autosostenersi. Al di là dell’impegno delle organizzazioni laiche e religiose, però, la ricostruzione procede a rilento. Anche per i pochi mezzi di cui dispone il governo. I tanto sbandierati aiuti promessi dalla comunità internazionale dopo la tragedia del 12 gennaio 2010 arrivano col contagocce. Secondo l’Onu Haiti ha ricevuto solo la metà dei 382 miliardi di dollari richiesti nel 2011. Quest’anno la quota si è ulteriormente ridotta: poco più del 10% dei 231 miliardi previsti. Comprensibile, dunque, che la rabbia degli abitanti esploda periodicamente. Trasformandosi, spesso, in violenza. A farne le spese sono soprattutto le donne e i bambini. Madre e Kofavit – due Ong locali – hanno registrato oltre 1.200 episodi di violenza nelle tendopoli nei 24 mesi successivi al sisma, in media un caso ogni 15 ore. Si tratta di una stima per difetto. Perché la maggior parte delle aggressioni non viene segnalato. L’Onu ha rivelato di recente che su 62 casi denunciati nei primi 90 giorni dopo il terremoto, solo in uno le indagini sono andate avanti e hanno portato all’imputazione di un sospettato. Il cui processo, però, non è ancora cominciato. Molte bambine, di appena sette od otto anni, rimaste orfane, sono costrette a prostituirsi in cambio di una damigiana d’acqua pulita: meno di un terzo degli abitanti delle tendopoli ha accesso alle risorse idriche. Questo spiega la persistenza del colera. Tra aprile e maggio Medici senza frontiere ha registrato un nuovo picco: oltre cinquanta nuovi casi al giorno. A fine maggio suor Marcella Catozza ha deciso di riaprire la clinica San Francesco nella baraccopoli di Warf Jeremie. L’aveva dovuto chiudere a causa della pressione delle bande armate. Sulla miseria, infatti, tanti speculano. Squadroni vicini agli ex presidenti-dittatori Jean Bertrand Aristide e Jean Claude Duvalier, rientrati ad Haiti all’inizio del 2011 dopo un lungo esilio, hanno assunto il controllo di varie baraccopoli. Molti pensano che cerchino basi sociali per riconquistare prima o poi il potere. Chi si oppone viene ucciso, come dimostra la strage di poliziotti: in media due al mese sono assassinati. Haiti, però, non si arrende. «Ho vissuto tre dittature feroci, non so più quanti colpi di Stato, un terremoto – dice Napoleon – e sono ancora qui. Come il mio popolo, abituato a lottare con la furia dei siklonn . E a sopravvivere, a dispetto di tutto».