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Intervista. Sylvie Guillem: «La danza sono io»

Pierachillle Dolfini mercoledì 28 ottobre 2015
«Pronto? Sono Sylvie». A presentarsi, con una semplicità disarmante è uno dei miti della danza. Per un attimo resti spiazzato. Perché la “Sylvie” che chiama è Sylvie Guillem. Cinquant’anni compiuti a febbraio – e non lo nasconde – a 11 anni ha detto addio alla ginnastica artistica per la danza classica. «Il primo spettacolo pochi mesi dopo l’ingresso all’École de danse dell’Opera di Parigi. Ballerina di fila insieme alle mie compagne di corso. Ma che emozione essere per la prima volta su un palco», racconta oggi la danzatrice con un italiano impeccabile. «L’ho imparato grazie a Snoopy, protagonista di libricini pensati per insegnare la lingua ai bambini che ho comprato in libreria la prima volta che sono venuta in Italia». A lanciarla Rudolf Nureyev che l’ha promossa étoile dell’Opera quando la Guillem aveva solo 19 anni. L’addio a Parigi per Londra. Poi una carriera da solista in giro per il mondo, tra classico e contemporaneo. Per lei hanno creato Maurice Bejart, William Forsythe, Mats Ek, come dire il meglio della coreografia del Novecento. Oggi Sylvie dice addio alla danza. «Perché è giusto così. Perché prima o poi si deve fare», racconta da Singapore, quando là è notte fonda e lei ha da poco raccolto applausi con l’ennesima tappa di Life in progress, lo spettacolo con il quale sta girando il mondo per congedarsi dalle scene e che domani arriva a Milano, al Teatro degli Arcimboldi. «Ballo Technedi Akram Khan, Here and after di Russel Maliphant e Bye di Mats Ek». Sarà un addio senza ripensamenti, Sylvie? «Direi di sì. Una carriera artistica ha le stesse tappe della vita: come si nasce, si cresce e si muore così nella danza c’è un inizio, un’evoluzione e una inevitabile fine. Ho voluto decidere io, però, il momento. Per non essere patetica, per congedarmi dal pubblico nel momento giusto, avendo ancora quell’energia e quella motivazione necessaria per poter fare un bel regalo agli spettatori. Per 39 anni ho fatto cose bellissime, ma in ogni istante sapevo che sarebbe arrivato un momento in cui tutto questo doveva finire. I ballerini ogni giorno, di fronte alla fatica e ai sacrifici che la danza richiede, dicono: “Domani mi fermo”. L’ho detto anch’io tante volte. Non credendoci mai. Ora è venuto il momento di dirlo seriamente». Il suo futuro sarà ancora nella danza? Coreografa, direttrice di compagnia? Non direi proprio. Sin da ragazza ho scelto di essere una ballerina: se avessi voluto fare la coreografa o la direttrice di compagnia mi sarei mossa diversamente, lo avrei fatto da subito, avrei impostato la mia formazione in quella direzione. Invece il mio sogno è sempre stato quello di andare sul palco per ballare». Cosa farà, allora? «Per il momento non ho fatto piani. Vedo quello che arriva. Come ho sempre fatto. Non ho mai voluto progetti a lunga scadenza: ricevevo proposte, le studiavo e le realizzavo se mi convincevano. Sento che ora, dopo il tempo della danza, dell’azione, è il momento della riflessione». Quando ha iniziato a danzare? «Come tanti bambini in casa mettevo la musica e mi scatenavo. Direi che ho iniziato a ballare quando ho iniziato a camminare. Prima ho fatto ginnastica artistica, dove imbastivamo alcune coreografie. Poi dopo, a 11 anni, sono entrata all’École de danse dell’Opera. Preparando il primo spettacolo ho deciso che avrei fatto la ballerina, affascinata dalle prove, dai costumi, dal trucco, dalle luci. Ma soprattutto dalla possibilità di dialogare con il pubblico». Cos’è e cosa è stata (e cos’ è) per lei la danza? «La danza sono io… nel senso che è stata la mia vita di donna. Sono diventata donna formandomi come ballerina, danzando ho imparato la vita, la sofferenza, ma anche la gioia, la ricchezza che viene dall’incontro con l’altro». Quali gli incontri significativi della sua vita di donna e ballerina? «Quello con la direttrice dell’ École de danse dell’Opera, Claude Bessy che durante uno stage mi ha notata proponendomi di studiare con lei. L’altro incontro fondamentale quello con Rudolf Nureyev. Non solo perché a 19 anni, dopo un Lago dei cigni, mi ha nominata étoile, ma per gli incontri che mi ha permesso di fare. Senza di lui la mia vita non sarebbe stata la stessa. Quando arrivò a dirigere il Corpo di ballo dell’Opera fece una vera e propria rivoluzione, portò Bejart, Forsythe, Mats Ek, tutti coreografi con i quali ho poi lavorato affrontando stili diversissimi che mi hanno arricchita». Quale il personaggio che le è rimasto più addosso? «Tutti direi. Perché interpretandoli ho potuto vivere emozioni, anche estreme, che nella vita non avrei mai retto». C’è invece qualcosa che non avrebbe voluto ballare? «Quando ero in compagnia all’Opera dovevo ballare quello che c’era in cartellone. Ma presto ho avuto la fortuna di poter scegliere. Non solo secondo il mio gusto estetico, ma soprattutto penando se era arrivato il momento giusto per affrontare un personaggio. Penso a quando stavo ballando Giulietta e Rudolf mi propose di interpretare Giselle dicendomi che avevo la freschezza giovanile, che avevo le qualità per sostenere un’interpretazione complessa. Io, però, non mi sentivo pronta, non possedevo ancora il personaggio. E ho rifiutato. Rudolf non ha capito, ma ha rispettato la mia decisione. Un ballerino è un interprete, attraverso il suo corpo fa arrivare il messaggio di un altro, del coreografo. Come ha esercitato in questo la sua libertà? Ballare, per me, è sempre stato dire chi sono. Perché sul palco non si può essere solo uno strumento, occorre portare la vita. In scena dobbiamo dare tutto quello che abbiamo, pensieri e cuore. Ogni volta che ero in sala prove a lavorare su un personaggio mi chiedevo come io Sylvie avessi potuto reagire se fossi stata Giulietta o Manon. Ho sempre approfondito i personaggi che dovevo interpretare, leggendo, informandomi per poterli trasmettere al meglio e perché non potevo raccontare una storia se non era chiara per me. Forse sarebbe stato più facile limitarsi a eseguire passi, ma così non avrei raccontato la vita».