Agorà

INEDITI. Guardini: devo rivalutare Wagner

Marco Roncalli martedì 16 febbraio 2010
Il piccolo tesoro sta nell’archivio della canonica di Mooshausen, a metà strada fra Monaco e Lindau. E’ lì che si conservano 223 lettere spedite da Romano Guardini al miglior amico di tutta la sua vita: Josef Weiger,  parroco di questo borgo nell’Allgäu svevo, l’uomo fidato «estremamente aperto e umanamente ricco», chiamato dal pensatore italo-tedesco a condividere le sue riflessioni. Un epistolario che lascia specchiare oltre mezzo secolo di comunione di pensieri e d’affetto, intensa soprattutto negli anni giovanili degli studi, del dottorato a Friburgo, dell’abilitazione a Bonn, del periodo di Guardini professore a Berlino... sino a quando, destituito dalla cattedra di Weltanschauung dai nazisti, tra il 1943 e il 1945 trovò rifugio proprio in una stanza della casa parrocchiale di Mooshausen. Lì infatti Guardini abitò in quel periodo, ospite dell’amico che aveva conosciuto per la prima volta nel collegio Wilhelmsstift di Tubinga nel novembre 1906, quel Weiger che nel 1907 l’aveva accompagnato all’abbazia di Beuron facendogli scoprire la liturgia di verità e bellezza e un «mondo completamente nuovo». È lui l’interlocutore di tanti sereni confronti (si registra solo una netta divergenza nata da un fraintendimento), col quale il teologo visse il «carisma dell’amicizia» partecipandolo poi con benedettini come Anselm Manser (che richiamò l’attenzione di Guardini su Max Scheler), Odilo Wolff (alle radici dell’interesse guardiniano per il pensiero platonico), Placidus Pflumm (una sorta di starez votato a conoscere le anime), con compagni di studi quali Karl Neundörfer (ordinato sacerdote con Guardini a Magonza nel 1910) o Philipp Funk ed Herman Hefele (usciti dal seminario per il modernismo, ma mai dimenticati), con persone semplici come le domestiche di Weiger, Maria Knoepfler e Mina Bärtle, donne di grande interiorità. Lì, a Mooshausen, Guardini avrebbe continuato a vivere senza regolarità anche fra il 1945 e il ’48 nei periodi liberi dall’insegnamento come associato di filosofia all’università di Tubinga, prima di passare alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco, città elettiva dei suoi ultimi vent’anni, tornandovi spesso anche negli anni successivi per «pause ristoratrici» in quella che considerò la vera casa della sua vita. Ma arriviamo al contenuto del piccolo tesoro di Mooshausen, ora in libreria nella collana dedicata dalla Morcelliana all’Opera Omnia di Romano Guardini (Lettere a Josef Weiger 1908-1962, a cura di Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, pp. 528, 40 euro). In realtà sono molti i temi affrontati nelle missive per il «caro Josef» e, accostati con rigore, consentono – come scrive la curatrice – «di gettare uno sguardo insolito specialmente nel mondo spirituale del giovane Guardini». O quanto meno di seguire le tappe dell’evoluzione del suo pensiero verso la piena maturità, anche nei passaggi progressivi da posizioni vicine a tesi liberali ad altre più tradizionali. Documenti ancor più preziosi se si pensa all’enorme corrispondenza guardiniana che ancora attende di vedere la luce (se ne conoscono schegge valorizzate dai biografi o tutt’al più gli scambi epistolari con il fenomenologo Frederik J.J. Buytendijk, con i benedettini Ildefons Herwegen e Odo Casel, e non molto altro), questi testi – vergati in inchiostro o a matita e negli ultimi anni dattilografati – inanellano riflessioni che spaziano dall’arte alla musica, dalla pedagogia alla liturgia, dall’antropologia all’etica, parlandoci di fede e devozione, rivelazione e speranza, tenendo il riflettore puntato sul mysterium Christi, perno di quella Weltanschauung cattolica a lungo insegnata (anche se nel 1924, scrivendo da Postdam a Weigel, Guardini gli confidava «Detto tra noi: gli studenti cattolici non hanno un grande interesse per la visione del mondo! Se faccio i conti sono 1) i non-cattolici 2) la gente del movimento giovanile, dopodiché non ne restano molti altri!»). Nelle pagine è comunque il legame costruito e alimentato sulla fede come incontro a balzare agli occhi: «Devi trovare la comunione con gli uomini. Dare loro non un cameratismo esteriore, bensì le cose più importanti, quelle che vengono da dentro. E puoi farlo solo se le capisci, se tu stesso diventi "di tutti", se sai domare e chiarire la tua passione a te stesso», così Guardini a Weiger il 10 febbraio 1911, convinto come scrive poi il 31 dicembre 1912 che «la virtù umana per eccellenza, status viatoris, più semplicemente il lato pratico della fede» è «l’ottimismo cristiano» e che «solo chi ha un legame profondo con il territorio e con il popolo ha la competenza per poter parlare di religione, di morale e della vita», così il 16 febbraio 1913. Legami che si leggono in filigrana dietro le tante descrizioni di rapporti con amici, conoscenti, familiari, luoghi, autori conosciuti de visu o attraverso le loro opere. Che sovente generano entusiasmo. Così di Charakter und Christus del pedagogista Friedrich Wilhelm Foerster, il 22 maggio 1908 scrive: «Per quel che ne ho letto è straordinario» e il 15 febbraio 1914: «L’ho sempre sul tavolo; e gli devo molto». Oppure dopo aver visto il Parsifal, nella stessa lettera scrive: «Caro Josef, com’è bello e grandioso![...]. Devo rivedere alcuni giudizi su Wagner [...]. L’ho ascoltato per due domeniche consecutive, ed entrambe le volte sono andato con dei pregiudizi negativi – e che cosa posso dire; entrambe le volte mi ha fatto stare meglio, mi ha fatto pregare. Se mi riesce, voglio mettere per iscritto ciò che ho colto [...]. Non posso farci niente: è un vero e profondo cristianesimo».A Weigel Guardini parla di Newman («Senz’altro il santo del XIX secolo, ma per il suo sguardo nel futuro»: così il 6 gennaio 1930); di Agostino (o meglio dell’«immagine religiosa del suo mondo», per «innalzare la grande speculazione religiosa, e parlare dell’anima interiore, pia, in un modo totalmente umano»); di Nietzsche («L’autore con cui dobbiamo confrontarci nel modo più amaro», confida nell’aprile 1922 aggiungendo: «Vedo più precisamente quale sarà la decisione dei tempi futuri: cristianesimo o paganesimo, cioè un paganesimo determinato, ricco e bello, che ha nel sangue la libertà prodotta da 2000 anni di cristianesimo»). Ma c’è spazio per l’Aquinate e Dante, Brentano e Goethe, Leopardi, Bremond, Lucie Christine... Per la filosofia, la letteratura, la poesia... E per i maestri delle arti figurative che fanno appello a relazioni inesauribili: Emil Nolde, Gebhard Fugel, Karl Otto Speth, Karl Caspar..., ma alla luce del loro impatto («Come il popolo vuole e avverte l’immagine; che cosa vi cerca, che significato ha...», così il 6 agosto 1916 da Magonza). E c’è spazio per riflettere sulla fede. In una lettera del 19 novembre 1924 si legge: «È proprio così: bisogna credere per poter giudicare le cose della fede. Sembra un paradosso, ma è la più semplice delle verità. Proprio come il fatto che bisogna vedere i colori per poterli giudicare!». Dieci anni prima, il 28 marzo 1915, a Weigel aveva scritto di non ammettere l’integralismo: «È il tentativo forzato di collocare Dio e ciò che supera la natura nella vita piena e di farne la parte dominante di ogni cosa. È un male per il fatto stesso di volersi imporre esclusivamente».