Agorà

Romanzo. Guardare Manzoni per capire se stessi: il romanzo di Zaccuri

Roberto Carnero venerdì 28 gennaio 2022

Lo scrittore Alessandro Zaccuri

La storia, si dice, non si fa con i “se” e con i “ma”. I romanzi, a volte, sì. Che cosa sarebbe successo se Giulia Beccaria non avesse sposato il conte Pietro Manzoni? È questo il punto di partenza del nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso (Marsilio. pagine 240, euro 16). Nella storia reale Giulia, nata nel 1762, iniziò nel 1781 una relazione con Giovanni Verri, fratello minore di Pietro, uno dei fondatori della rivista “Il Caffè”. Nel 1782 sposò il nobile e ricco Pietro Manzoni, di ventisei anni più anziano, per volere della famiglia, intenzionata a far terminare lo scandalo. Un matrimonio il cui epilogo sarà, dieci anni più tardi una separazione, anche perché nel frattempo Giulia, allontanatasi (ma non subito) dal Verri, aveva iniziato una nuova liaison col conte Carlo Imbonati.

Il 7 marzo 1785 Giulia mise alla luce un figlio, Alessandro. Ufficialmente figlio del conte Pietro, Alessandro Manzoni era in realtà figlio di Giovanni Verri: un dato sul quale fino a non molti anni fa i manuali di letteratura italiana tendevano a sorvolare, ma di cui oggi non si fa più mistero neppure agli studenti delle medie. Zaccuri immagina invece che del matrimonio tra quel «conte vecchiardo, e di oscura fama» e l’irrequieta contessina si fosse per un certo tempo parlato, ma che alla fine nulla fosse stato concluso. Nelle prime pagine del romanzo troviamo Giulia ormai anziana e malata.

Siamo a Milano, nell’afosa estate del 1841. Nel palazzo di Brera, la dimora nobiliare dei Beccaria, c’è una certa agitazione, perché è appena arrivato un francese piuttosto singolare. È il sedicente barone di Cerclefleury, dimostra l’apparente età di venticinque anni, ma dichiara di essere prossimo alla settantina. Racconta di essere il discepolo prediletto di Franz Anton Mesmer, il medico tedesco celebre per la sua dottrina del “magnetismo animale”. Cerclefleury spiega di aver ricevuto da Mesmer l’infusione di quel fluido magnetico che è all’origine del suo mancato invecchiamento biologico. E che lui a sua volta ora può donare agli altri. È arrivato con una piccola bisaccia e sostiene che i bauli contenenti le misteriose apparecchiature necessarie a eseguire le terapie siano rimasti bloccati alla dogana.Ciò non gli impedisce però di intrattenere con i suoi racconti le dame del bel mondo milanese, appositamente invitate dalla marchesa Beccaria. Fino a provare, in una seduta pratica, a esercitare su di loro i propri trattamenti.

Forse suggestionate dai suoi modi seducenti, dalla parlantina sciolta, forse da qualche trucco da prestigiatore – e qualcuna anche dalla sua avvenenza –, le nobildonne si convincono di essere assai fortunate a poter partecipare a quegli incontri. A palazzo c’è un altra figura assai cara a Giulia. Si chiama Evaristo Tirinnanzi, è un uomo di cinquantasei anni e da quando ne aveva venti è al servizio della marchesa in qualità di contabile e amministratore. Era un trovatello, abbandonato alla ruota e allevato all’orfanotrofio. Finché la marchesa, per fare un’opera di carità, aveva deciso di curarne l’istruzione e infine l’aveva assunto.

Ma chi è veramente Evaristo? L’uomo manifesta inizialmente una certa freddezza nei confronti del barone di Cerclefleury, il quale un giorno decide di pedinarlo e, seguitolo sin nei meandri del più malfamato quartiere di Milano, ne scopre un insospettato segreto. Evaristo, che si è accorto di essere stato scoperto, decide di aprirsi con il barone. Gli confida il suo tormento (una scadenza che potrebbe essergli fatale), ma soprattutto gli consegna un brogliaccio in cui trascrive – come in trance – parole, pensieri, espressioni, versi, che gli vengono in mente e che i lettori non faticheranno a riconoscere come lacerti di opere manzoniane. Il tormento del Tirinnanzi è proprio questo: il non sapere chi è, perché sente che è come se ci fosse “un altro” a parlare dentro di sé.

Il titolo stesso del romanzo è tratto da un verso di un celebre sonetto in cui Manzoni traccia il proprio autoritratto: «Poco noto ad altrui, poco a me stesso». Si crea così un’alleanza tra questi due personaggi, che hanno qualcosa in comune, l’essere altro da ciò che sembrano: un barone che probabilmente tale non è (gli indizi in tal senso si affastellano man mano che si procede nella lettura) e un contabile che forse non è solo un contabile, e che è anzi ben altro, malgrado se stesso. Intanto altri personaggi – tra i quali uno scaltro gesuita palermitano, un malvivente dai tratti scimmieschi e un anziano nobiluomo a caccia di eredità – complicano la vicenda, che diventa sempre più intrigante, in un crescendo di suspense e colpi di scena.

Ma riferire della trama dà conto soltanto della metà delle ragioni del godimento provocato dalla lettura del romanzo di Zaccuri. Perché gran parte del suo valore risiede nello stile. Uno stile originale, mimetico di quello dei romanzi ottocenteschi, eppure scorrevole, affabile, percorso da briosa ironia, privo della pedanteria da cui una simile opzione avrebbe potuto essere viziata, in quanto sempre sorvegliato da un narratore pienamente padrone dell’ampio ventaglio di soluzioni espressive messe in campo. Un narratore che si diverte e diverte i suoi lettori in vari modi.

Disseminando nel testo citazioni, esplicite (come abbiamo visto poc’anzi) o meglio ancora dissimulate, di opere manzoniane: così di una servetta di casa Beccaria viene detto che «conservava nei modi la modestia un po’ guerriera delle contadine» (espressione che Manzoni utilizza per descrivere Lucia Mondella), mentre il criminale di cui sopra, dopo aver minacciato il barone, si incammina «fischiettando una melodia da taverna» (come i bravi, dopo aver intimato a don Abbondio di non celebrare le nozze, si allontanano «cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere»).

Il gioco continua ammiccando al romanzo manzoniano con frequenti appelli al lettore e, infine, attraverso una serie di inserti metanarrativi con cui Zaccuri scopre le carte della propria operazione letteraria. Perché c’è il gusto – la nostalgia? – di un certo modo di raccontare (con una macchina oliata alla perfezione in ogni suo ingranaggio, al limite del feuilleton), ma anche la consapevolezza, tutta postmoderna, della sua sostanziale impraticabilità.